Un’ostinata razionalità per non essere trascinati nella «questione criminale». di Mauro Palma, Stefano Anastasia, Patrizio Gonnella

Giustizia. Nessuno, giudice o custode, ha nella propria disponibilità la dignità e i diritti fondamentali delle persone arrestate o detenute. Ci disse un capo dell’amministrazione penitenziaria: «La tortura sta nel terzo mondo». Poi ci furono: carcere di Sassari e Global Forum di Napoli, scuola Diaz e Bolzaneto… e tanti fatti di «cronaca».

Ha ancora senso, dopo trent’anni, interrogarsi sull’intuizione che si ebbe nel 1991 quando si decise di dar vita a un’associazione volta alla tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Quel che è accaduto negli ultimi tre decenni ci racconta di quanto quell’intuizione sia servita a controbilanciare la progressiva esondazione delle politiche criminali e, più genericamente, repressive.

I numeri della popolazione detenuta sono un indice di questa presenza ingombrante: se nel ‘91 i detenuti erano poco più di 30 mila, oggi – nonostante le scarcerazioni dovute all’emergenza pandemica in corso – sono oltre 53 mila, avendo nell’arco del trentennio quasi raggiunto il picco dei 70 mila. E nel frattempo si è moltiplicata per dieci l’area penale esterna, senza però che questo aumento abbia parallelamente scalfito la crescita della pena detentiva e, quindi, i numeri del carcere.

Sono passati trent’anni lungo i quali abbiamo assistito e fatto opposizione a una diffusa deriva securitaria.

Mentre con sguardo miope si osservava estasiati, sia da destra che da sinistra, il modello della zero tolerance proposto oltreoceano dall’allora sindaco di New York Rudolph Giuliani, Antigone si affidava a un’ostinata razionalità affinché non si trascinasse nella questione criminale ciò che avrebbe dovuto avere solo ed esclusivamente rilevanza sociale: l’immigrazione, la povertà diffusa, l’uso di sostanze stupefacenti. Intellettuali che «si baloccano con Cesare Beccaria»: così ci siamo sentiti qualificare su qualche giornale mainstream quando contrastavamo uno dei tanti pacchetti sicurezza che se la prendeva con i lavavetri al grido che i rumeni sono tutti delinquenti. All’epoca Rudolph Giuliani andava di moda, era considerato un totem. Oggi è trattato come l’avvocato pazzo di Trump.

Noi siamo invece rimasti fedeli a quell’opzione garantista che sa scorgere le possibili derive del potere di punire.

E vi siamo rimasti fedeli anche quando la parola ‘garantismo’ è stata maltrattata, strumentalizzata, abusata, oppure accusata di correità con il nemico o con il criminale. In tutto questo, il manifesto è stato sempre al nostro fianco. Uno straordinario e leale compagno di viaggio, sin da quando Antigone, prima ancora di divenire associazione, era una rivista di critica dell’emergenza che usciva in edicola insieme a questo giornale. Erano gli anni in cui il primo avvio dell’allora recente riforma penitenziaria, che poneva l’esecuzione penale in linea con il dettato costituzionale, veniva contraddetto da provvedimenti adottati sulla spinta del contrasto alla lotta armata portata avanti da settori minoritari di movimento: era importante documentare i rischi del modello penale che si andava diffondendo, nelle prassi oltre che nelle norme, e l’iniziativa editoriale che affiancava il manifesto offriva lo spazio d’interpretazione e di ricomposizione della lacerazione che si era prodotta. Con il giornale abbiamo continuato nel tempo a camminare insieme ogni volta che abbiamo promosso campagne o battaglie, dall’abolizione dell’ergastolo alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, fino all’introduzione del delitto di tortura nel codice penale.

Le ragioni di Antigone sono ancora tutte in piedi. Esse si trovano, da un lato, nella necessità di svelare le ipocrisie di un’idea vendicativa e retributiva di giustizia e, dall’altro, in quella di definire i confini invalicabili per chi detiene il potere di punire. Nessuno, giudice o custode, ha nella propria disponibilità la dignità e i diritti fondamentali delle persone arrestate o detenute. Questo principio, che oramai è parte del diritto interno e internazionale, fa fatica a trovare attuazione nei luoghi di privazione della libertà. Per questo Antigone, alla fine degli anni Novanta, decise di impegnarsi su tre fronti: l’osservazione diretta delle carceri, effettuata da propri volontari nella consapevolezza che lo sguardo esterno ha capacità tanto di lucida narrazione quanto di prevenzione rispetto a tentazioni di abusi; l’istituzione di una figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà, nei diversi luoghi ove queste sono ristrette per una varietà di ragioni, da quella penale a quella dell’irregolarità amministrativa o solo per le vicissitudini nello svolgersi della vita; la previsione del crimine di tortura.

La tortura, ci disse un capo dell’amministrazione penitenziaria sul finire del millennio, è qualcosa che riguarda il terzo mondo. Poi ci furono le violenze nel carcere di Sassari e al Global Forum di Napoli, le torture alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, tanti altri fatti di cronaca che avrebbero potuto avere altro esito giudiziario se quel crimine non fosse stato introdotto solo nel recente 2017.

Ma la tenacia di un’associazione è anche questa: portare avanti una campagna per vent’anni senza stancarsi di spiegarne le ragioni. Anche quando sembrano ovvie, scontate. Abbiamo imparato che nulla, ma proprio nulla, va dato mai per scontato; sapendo bene che molti dei traguardi non sono ancora vicini e necessitano di un’ampia azione di natura culturale.

In questi trent’anni abbiamo avuto al nostro fianco tanti avvocati, magistrati, professori universitari, ricercatori, insegnanti, attivisti. E negli ultimi tempi anche tantissimi studenti e giovani che trovano nella mission di Antigone una ragione di impegno. Ciò costituisce un punto di forza e una speranza per il futuro.

Questo articolo è stato pubblicato nell’inserto speciale “LA VARIANTE ANTIGONE” (che puoi leggere qui) che il manifesto ha pubblicato il 17 febbraio 2021, in occasione del 30° compleanno dell’ Associazione Antigone

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