La pandemia Covid-19 ha messo sotto un’estrema pressione i sistemi mondiali rilevandone limiti e manchevolezze, ma anche pregi e positività. Molto si è discusso su come i sistemi sanitari avrebbero dovuto meglio prepararsi di fronte a questo prevedibile evento, ma non si sono analizzate a sufficienza le conseguenze di una governance sanitaria frammentata, basata su finanziamenti verticali di singoli programmi, incapace di collegare e integrare i vari settori del sistema. Un recente articolo di Lancet[1] cerca di individuare quale modello di sistema sanitario abbia meglio resistito allo stress della pandemia giungendo alla conclusione che la soluzione vincente è stata quella che riusciva ad allineare le politiche di sicurezza sanitaria globale (global health security, GHS) con quelle di copertura sanitaria universale (universal health coverage, UHC).
Le politiche di sicurezza sanitaria globale sono “incentrate sulla prevenzione, la rilevazione e la risposta alle minacce alla salute pubblica, in particolare proteggendo le persone e società in tutto il mondo da minacce di malattie infettive” e sono desunte dalle “International Health Regulations” (IHR) dell’OMS. Le IHR forniscono un quadro giuridico globale e sono uno strumento di diritto internazionale legalmente vincolante per 196 paesi che definisce i diritti e gli obblighi nella gestione di eventi ed emergenze di salute pubblica internazionale, con particolare riguardo alle procedure di segnalazione, sorveglianza, comunicazione del rischio e coordinamento (che sono quindi alla base delle politiche di GHS)[2].
La copertura sanitaria universale, promossa dall’Assemblea delle Nazioni Unite, con una risoluzione del 6 dicembre 2012, si poneva l’obiettivo di garantire a tutti l’accesso senza discriminazioni ai farmaci essenziali ed all’insieme dei servizi (definiti da ciascuna singola nazione) di prevenzione, cura e riabilitazione tali che questi fossero sicuri, economici, efficaci e di qualità, con la garanzia che l’uso di questi servizi non esponesse i pazienti – in particolare i gruppi più poveri e vulnerabili – a sofferenza economica.
L’OMS ha sposato entrambe le strategie, assegnandogli il medesimo livello (alto) di priorità[3], tuttavia – a causa degli scarsi investimenti in sanità pubblica degli ultimi decenni – è spesso capitato che le due strategie fossero disallineate, producendo gravi ripercussioni sulla salute delle popolazioni, come è successo in Africa Occidentale nel corso dell’epidemia di Ebola del 2014-16. Qui infatti molti fondi furono investiti per aumentare le capacità diagnostiche, potenziando i laboratori, ma ciò avvenne sottraendo risorse ai servizi sanitari di base, con la conseguenza di registrare più morti per malaria non trattata che per Ebola[4].
Gli autori del citato articolo di Lancet passano in rassegna come vari modelli di sistema sanitario abbiano risposto all’emergenza COVID-19 alla luce di quanto viene investito in GHS e UHC: secondo questa schematizzazione si possono suddividere i sistemi sanitari in tre gruppi:
- quelli che maggiormente finanziano la sicurezza sanitaria globale,
- quelli che spendono maggiormente per garantire la copertura sanitaria universale,
- quelli che distribuiscono i fondi in maniera bilanciata.
Nel primo gruppo rientrano gli USA che pur risultando in cima agli indici come il Global Health Security Index (stilato dal Nuclear Threat Initiative, Johns Hopkins Center for Health Securityed Economist Intelligence Unit) che dovrebbe misurare “le capacità e la sicurezza sanitaria di un paese”[5], hanno riportato un numero di contagi e morti tra i più alti in assoluto. Gli autori giustificano questo fatto principalmente con la frammentazione e la disorganizzazione della sanità americana, che in effetti non è unificata ma divisa nei vari sistemi regolati dalle leggi dei vari stati componenti gli USA. Questo avrebbe condotto a una risposta tardiva e confusa alla pandemia, infiacchita anche dalla mancanza di un accesso universale alle cure.
Similarmente nei paesi africani, grazie a iniziative di sanità globale e donazioni, si è privilegiata la preparazione e la capacità di risposta alle epidemie che affliggono ciclicamente il continente rispetto alla costruzione di sistemi universali di accesso alle cure. Molti paesi hanno infatti superato una Joint External Evaluation dell’OMS per valutare la loro capacità di preparazione a rispondere ad epidemie come l’Ebola e si sono fatti trovare preparati nel tracciamento sanitario dei casi/contatti del COVID-19. Purtroppo la mancanza di cure primarie e di livello superiore, così come l’impossibilità di gestire le realtà locali, non ha permesso di fermare la diffusione del virus e questa falla è testimoniata dal fatto che solo pochi paesi africani hanno raggiunto l’obbiettivo fissato dalla Dichiarazione di Abuja del 2001 di investire il 15% della spesa governativa in sanità[6].
Sull’altro lato anche i paesi con un forte sistema sanitario universale ma che non hanno implementato le misure di sicurezza sanitaria globale hanno avuto difficoltà nella gestione della pandemia. Tra questi vi è la regione italiana della Lombardia in cui le funzioni di coordinamento e gestione dei test o dell’approvvigionamento di forniture è stata inadeguata. Anche in Gran Bretagna l’inerzia politica e le scarse capacità di coordinamento, sorveglianza, comunicazione del rischio non hanno permesso una gestione ottimale dell’emergenza che si è riflessa anche nella cattiva gestione delle patologie non-Covid (meno 50% degli accessi al pronto soccorso per infarto).
Infine i paesi che hanno allineato gli investimenti in sicurezza internazionale e accesso alle cure si sono dimostrati più capaci nel far fronte all’emergenza pandemica. I paesi che hanno registrato le migliori performance, espresso dal minor numero di decessi per milione di abitanti, sono Corea del Sud (28), Singapore (5), Tailandia (1), Taiwan (0,1) e Vietnam (19), [NB: Belgio (1.815), Francia (1.171), Italia (1.471), UK (1.565), USA (1.365)]. Questi paesi anche grazie alla precedente esperienza di SARS nel 2002-03, sono riusciti a realizzare in brevissimo tempo e con successo la strategia delle 3 T: Testing, Tracing, Treating. Ovvero identificazione veloce e massiva dei casi con conseguente isolamento, puntuale e tempestivo tracciamento dei contatti seguito da quarantena rigidamente controllata. Un’attività perseguita anche con l’uso di dispositivi digitali, ma soprattutto con l’intervento di schiere numerosissime di tracciatori. Qui il trattamento dei soggetti diagnosticati è la conseguenza dei precedenti punti e ha previsto precocemente la presa in carico a domicilio. Da segnalare l’esperienza del Kerala, Stato dell’India, dove accanto a una straordinaria mobilitazione di operatori sanitari di villaggio per l’attività di diagnosi precoce e di tracciamento si è sviluppata una diffusa e efficace attività di protezione sociale a favore dei poveri e dei migranti. Gli autori portano anche l’esempio italiano del Veneto dove – nella prima ondata della pandemia – la puntualità dei test, lo screening, le misure di isolamento, il supporto al personale sanitario, il coordinamento esteso anche alle cure primarie, hanno determinato una notevole efficacia della risposta sanitaria.
Secondo Lancet, che ha istituito una commissione per studiare le sinergie tra universal health coverage, health security, e health promotion[7], è necessario reimmaginare radicalmente a livello globale la governance, le politiche e le modalità di finanziamento della salute. L’obiettivo è evitare il ripetersi degli errori commessi in questa pandemia e per fare ciò è necessario arrivare a livello globale a sistemi sanitari veramente universali, finanziati pubblicamente e guidati dallo Stato, che promuovono la salute e l’equità, non lasciando nessuno indietro.
Questo nuovo modello di salute globale, dove sicurezza globale ed universalità di cure si fondono viene schematizzato in quattro principi: Integrazione, Finanziamento, Resilienza, Equità.
- Integrazione: In molti paesi la scarsa interconnessione e collaborazione tra le specialità mediche all’interno dei sistemi sanitari nazionali e nelle varie istituzioni sanitarie determina una divergenza tra le politiche GHS e UHC. Per gli autori è possibile produrre sinergie ad esempio se si integrano il sistema di prevenzione con quello di erogazione delle cure oppure sistemi informativi sanitari di emergenza con reti di sorveglianza ordinaria e altre banche dati nazionali.
- Finanziamento: i dirigenti dell’OMS Kutzin e Sparkes hanno fatto notare come spesso le politiche sanitarie dei paesi a basso reddito sono condizionate dal potere del denaro stanziato dai donatori a favore di programmi verticali e non integrati[8]. Secondo gli autori in questi paesi sarebbe necessario portare gli investimenti in sanità almeno al 5% del PIL per unificare questi programmi in un sistema sanitario universalistico. Inoltre si dovrebbe arrestare il processo di definanziamento dei sistemi sanitari in corso in tutto il mondo, dovrebbe essere garantito l’accesso gratuito alle cure primarie per tutti indipendentemente dalla situazione lavorativo-assicurativa e aumentare l’approvvigionamento delle risorse essenziali.
- Resilienza: per la definizione di resilienza di un sistema sanitario gli autori si rifanno a quella di Kruk (Department of Global Health and Population, Harvard USA) intesa come la “capacità dei sanitari, istituzioni e popolazioni di prepararsi e rispondere efficacemente alle crisi, mantenere le funzioni principali e, imparando dalle lezioni apprese, riorganizzarsi se le condizioni lo richiedono”[9]. La resilienza è un potente indicatore di qualità ed i modelli tradizionali (e.g. Global Health Security Index) secondo gli autori non si sono rivelati efficaci nel valutarla e quindi dovrebbero essere sviluppati nuovi indici di preparazione alle crisi sanitarie.
- Equità: l’integrazione delle agende GHS e UHC deve porre al centro la questione dell’equità. La risposta a COVID-19 non ha tenuto in sufficiente considerazione i determinanti sociali di salute e non ha visto il necessario coinvolgimento significativo delle comunità. Questo risulta essere un elemento fondamentale per agire da contrappeso nei confronti degli interessi politici, privati e di settore. È inoltre necessario salvaguardare gli interessi dei gruppi più vulnerabili e delle minoranze più potenzialmente colpite come la comunità LGBTQ+ e i rifugiati. Inoltre, al fine di perseguire l’obbiettivo della salute globale, i paesi più ricchi e i donatori privati dovrebbero adoperarsi per garantire e finanziare l’accesso universale alle cure primarie per i paesi più poveri.
l’Autore: Marco Menicacci, Scuola di specializzazione in Igiene e Medicina preventiva. Università di Firenze.
Bibliografia
- Lal A, Erondu NA, Heymann DL, Gitahi G, Yates R. Fragmented health systems in COVID-19: rectifying the misalignment between global health security and universal health coverage. Lancet 2020; 397: 61-67
- WHO: International Health Regulations
- WHO: Thirteenth general programme of work 2019-2023
- Erondu NA, Martin J, Marten R, Ooms G, Yates R, Heymann D. Building the case for embedding global health security into universal health coverage: a proposal for a unified health system that includes public health. Lancet. 2018; 392: 1482-1486
- Homepage – GHS Index (accessed on Dec 14, 2020)
- AFRICAN SUMMIT ON HIV/AIDS, TUBERCULOSIS AND OTHER RELATED INFECTIOUS DISEASES ABUJA, NIGERIA 24-27 APRIL 2001 OAU/SPS/ABUJA/3 ABUJA DECLARATION ON HIV/AIDS, TUBERCULOSIS AND OTHER RELATED INFECTIOUS DISEASES.
- Ooms G, Ottersen T, Jahn A, Agyepong IA. Addressing the fragmentation of global health: the Lancet Commission on synergies between universal health coverage, health security, and health promotion. Lancet 2018, 392, 1098–1099, doi:10.1016/S0140-6736(18)32072-5
- Kutzin J, Sparkes SP. Health systems strengthening, universal health coverage, health security and resilience. Bull. World Health Organ 2016; 94, 2–2, doi:10.2471/BLT.15.165050.
- Kruk ME, Myers M, Varpilah ST, Dahn BT. What is a resilient health system? Lessons from Ebola. Lancet 2015, 385, 1910–1912, doi:10.1016/S0140-6736(15)60755-3.
fonte: saluteinternazionale.info