L’atteggiamento di mettere in discussione la reale colpevolezza e responsabilità di chi uccide una donna – la “propria” donna – nasce da lontano. Chi non ricorda il film di Germi del 1961, Divorzio all’italiana? Il protagonista progetta ripetutamente l’uccisione della moglie confidando nelle attenuanti allora previste per il “delitto d’onore”, un tipo di reato commesso con la motivazione di salvaguardare la propria reputazione, “nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia (Codice Penale, art. 257)”, punito con la reclusione da tre a sette anni. Le disposizioni sul delitto d’onore del Codice Rocco, peraltro riprese da legislazioni precedenti, sono state abrogate solo nel 1981 (Legge 442 «Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore»), dopo l’abrogazione del reato di adulterio (peraltro declinato quasi sempre al femminile) nel 1968, dopo l’introduzione del divorzio nel 1970 e dopo la riforma del diritto di famiglia nel 1975.
Cambiano i contesti, cambia la legge, cambia – forse – la sensibilità collettiva. Ma fino a un certo punto. Recentemente, come sappiamo, la Corte d’Assise di Brescia ha considerato un uomo che ha ucciso la moglie “incapace di intendere e volere al momento del fatto” perché in preda al cosiddetto “delirio di gelosia”.
L’ira determinata “dall’offesa all’onor suo” si modernizza in un concetto medico-psichiatrico, diventando un raptus in cui il trigger – l’attivazione – viene rintracciata, più o meno esplicitamente, nell’antecedente comportamento di lei.
Al di là dell’uso ripetuto e discutibile del raptus, termine applicato tutte le volte che si deve prendere atto del comportamento criminale di un apparente “brav’uomo”, la gelosia appare come un sentimento giustificabile e causato dalle azioni di lei. Gelosia e invidia sono emozioni che la psicologa Valentina D’Urso ha interpretato come caratteristiche dei rapporti legati al possesso, e in questo caso agite verso la donna, contestualizzabili in una cultura in cui lo squilibrio di potere tra i generi è evidente.
Lo spostamento dello sguardo dai sentimenti di chi commette il reato a chi lo subisce è palese. Siamo alle solite: nella violenza di genere si chiede alla donna dove si trovava e come era vestita, nel femminicidio si cercano precursori e si indaga sul comportamento di lei – e non nelle azioni e gli atteggiamenti pregressi di lui.
Il movimento femminista, ma anche tutte le cittadine e i cittadini consapevoli, hanno ripetuto milioni di volte che in nessun reato – se non in quelli in cui la vittima è donna – viene analizzata la reciprocità delle azioni, neanche quando potrebbe essere sensata: per esempio l’atteggiamento delle forze dell’ordine e dei manifestanti, la contiguità di ambienti di lusso e ambienti marginali, l’autoritarismo delle istituzioni totali e i tentativi di ribellione, e così via. Lo psicologo sociale Moghaddam ha recentemente chiamato mutual radicalization la situazione di escalation dei conflitti in cui il comportamento di un gruppo provoca la reazione dell’altro.
Ma qui si sta parlando d’altro. Non abbiamo due gruppi contrapposti, siamo nel microsistema delle relazioni intime in cui la disparità è data dalla predominanza di un genere sull’altro, ed è in questo microcosmo, spesso blindato da una privacy che assomiglia molto al senso dell’onore familiare, che si consumano i delitti peggiori. È anche un conflitto sociale, sicuramente, con supporter reali e mediatici della parte del più forte e, fortunatamente, un sostegno di movimento alla parte con maggiori difficoltà. Un conflitto però che non viene riconosciuto e interpretato come tale: non si leggono i tentativi di comunicare/metacomunicare della vittima ma le emozioni del femminicida, che diventano delirio, patologia individuale e eccezionale rispetto alla normalità della famiglia, pulsioni tanto forti da provocare il passaggio all’atto, fino alla distruzione dell’altra con l’uccisione.
Anche adesso ci sono le attenuanti, più moderne dell’onore: un sentimento volatile come la gelosia, interpretato sbrigativamente come qualcosa “causato” da chi la provoca, e non presente in chi non riesce a gestirla e si sente – ancora una volta – “giustificato” ad agirla.
E così, rimanendo comunque nella convinzione che la responsabilità ultima sia sempre di lei, si invoca l’incapacità di intendere e di volere dell’omicida con un paradosso: come dire, lui è incapace non tanto di vedere la realtà, perché forse ha ragione nel sentirsi tradito, ma di vedere soluzioni per comporre la ferita narcisistica subita, troppo forte per la sua sensibilità, in altro modo che non sia l’annientamento di lei.
Bel progresso rispetto al delitto d’onore.
Note Bibliografiche
D’Urso, V. (2013). Psicologia della gelosia e dell’invidia. Roma: Carocci.
Moghaddam, F. M. (2018). Mutual radicalization: How groups and nations drive each other to extremes. American Psychological Association.
fonte: La Società della Ragione articoli per il dibattito su femminicidio e non imputabilità