La tutela dei lavoratori nell’emergenza Covid-19. di Gaetano Natullo

Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 3/2020 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link: https://www.ediesseonline.it/prodotto/rps-n-3-2020/ .

La pandemia determinata dal virus Sars-CoV-2 ha avuto ripercussioni importanti in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Le misure di contrasto al contagio e di protezione della salute dei cittadini/lavoratori adottate dal governo (e dalle regioni) si sono sviluppate in una duplice direzione: da un lato, applicare per quanto possibile il lockdown anche agli ambienti di lavoro; dall’altro lato, e nei casi in cui l’attività aziendale possa proseguire, adottare opportune tutele negli ambienti di lavoro volte ad evitare e/o ridurre al minimo i rischi di contagio. Ciò ha determinato un complesso incrocio tra le misure normative emergenziali (una successione di decreti, implementate dalle parti sociali nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, del 14 marzo 2020, aggiornato in data 24 aprile) e la preesistente normativa generale e speciale di stampo giuslavoristico, ed in particolare con quella di tutela della sicurezza del lavoro (art. 2087 c.c; dlgs n. 81/08) e di tutela contro gli infortuni e le malattie professionali (dpr 1124/65).

Il cortocircuito tra i provvedimenti sopra citati ha determinato diversi problemi interpretativi ed applicativi: natura delle fonti di produzione delle regole cautelari sopra ricordate ed alla loro vincolatività; natura del rischio Sars Cov-2 (rischio «generico», esterno all’azienda, o «specifico» interno all’azienda?), con importanti conseguenze a cascata sugli obblighi e le responsabilità, civili e penali, dei datori di lavoro. L’Autore privilegia la prima lettura, propensa a ricomprendere i rischi esterni/generici nell’ambito di protezione dell’obbligo di sicurezza datoriale, con conseguenti effetti anche sugli obblighi aziendali quali la Valutazione dei rischi e l’aggiornamento del Documento di valutazione dei rischi (Dvr). Sul versante della normativa previdenziale di tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, l’Inail ha chiarito come l’infezione da Covid19 determini un «infortunio sul lavoro» e non una «malattia professionale»: ciò, in applicazione dell’orientamento che inquadra le malattie infettive e parassitarie negli «infortuni», equiparando la causa virulenta alla c.d. «causa violenta». In secondo luogo, l’Inail chiarisce che il rischio di contagio da Covid19 costituisce un vero e proprio rischio specifico «professionale» solo in alcuni ambienti, come quelli sanitari per i relativi operatori; laddove negli altri ambienti di lavoro va considerato un rischio «generico-aggravato», comunque tale da poter determinare l’«occasione di lavoro» che, se dimostrata, fa scattare la tutela previdenziale.

Da qui le preoccupazioni delle imprese sulle possibili ricadute in termini di responsabilità di eventuali contagi dei lavoratori, non essendo possibile escludere, sul piano tecnico-giuridico, che all’eventuale verifica dell’«occasione di lavoro», consegua anche l’accertamento di una responsabilità dell’azienda per violazione degli obblighi di prevenzione, se si ritiene che il mancato rispetto delle misure (di precauzione) «Covid» si traduca più in generale in una violazione degli obblighi di sicurezza aziendali (e dunque delle citate disposizioni penali). Ciò, anche per effetto delle norme del Testo unico del 1965 (artt. 10- 11 d.p.r. 1124/65), che prevedono un «ritorno» della responsabilità civile del datore di lavoro nel caso di condanna penale per violazione delle norme di prevenzione.

Sebbene sia del tutto evidente che l’ipotesi di una tale responsabilità aziendale sia di assai difficile dimostrazione, nondimeno le forti preoccupazioni del mondo aziendale hanno indotto, per un verso, l’Inail ad interventi chiarificatori e, per altro verso, il legislatore ad intervenire con una specifica norma che, in sede di conversione del d.l. 23/2020, ha precisato che l’applicazione delle prescrizioni individuate nei Protocolli sottoscritti dalle parti sociali o negli accordi collettivi di settore esaurisce il quadro delle possibili misure applicabili e, pertanto, implica una piena osservanza dell’art. 2087 c.c. (art. 29 –bis l. n. 40/2020).

Altro interessante profilo attiene al ruolo delle parti sociali e delle rappresentanze dei lavoratori. Non v’è dubbio che la normativa emergenziale vede rafforzato il ruolo delle Parti sociali e delle rappresentanze sindacali e, nel complesso, delle prassi partecipative in materia di sicurezza del lavoro. È la prima volta, infatti, che nel nostro Paese gli standard normativi di prevenzione sono individuati dalla contrattazione collettiva. E risulta significativa anche l’assegnazione di un ruolo importante alle rappresentanze dei lavori in sede di controllo ed implementazione delle predette misure di prevenzione. Si assiste dunque ad un deciso rafforzamento delle logiche partecipative, certo agevolato dal clima emergenziale, ma la cui importanza è tanto maggiore proprio per quanto poc’anzi ricordato circa la valenza di standard normativi delle misure concordate nei protocolli. La verifica della corretta applicazione di tali misure, assegnata ai comitati aziendali, assume ancor maggiore rilievo nel momento in cui, per legge, tale verifica si traduce nel corretto adempimento degli obblighi di sicurezza «Covid-19» (e di cui anche al 2087 c.c.).

Questo nuovo impulso alle prassi partecipative, anche in chiave di regolazione «forte», può certamente risultare un contributo positivo, tra tante negatività, che la vicenda della pandemia può offrire in chiave di prospettiva. Senza obliterare, evidentemente, le criticità ad esso legate, dal momento che si affida in tal modo ad uno strumento regolativo contraddistinto da logiche di mediazione (tale è evidentemente il contratto o accordo collettivo), il compito di fissare gli standard di tutela della salute sui luoghi di lavoro.

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