Secondo due associazioni di categoria, milioni di italiani potrebbero ritrovarsi tra pochi anni senza medico di famiglia. Ma l’allarme è giustificato? In futuro serviranno medici di tipo diverso. Intanto, la medicina generale non sembra attirare i giovani.
Tanti medici in pensione
La notizia è di qualche giorno fa: in base ai calcoli della Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg) 14 milioni di italiani rimarranno senza un medico di famiglia. Il timore nasce dal pensionamento di quasi 15 mila medici da qui al 2022, che diventeranno 33 mila se si arriva al 2028. Se poi si sommano i pensionamenti dei medici ospedalieri (47 mila unità secondo le previsioni dell’Associazione medici e dirigenti del Servizio sanitario nazionale, Anaao-Assomed) avremo 80 mila medici in meno.
Il più lesto a rispondere all’allarme lanciato dai due sindacati dei medici – a nessuno sfugge, proprio in piena campagna elettorale – è stato il candidato premier del Movimento 5 stelle, che ha promesso ovviamente più denari per il Ssn (rimarcando ancora la storia dei 20 miliardi di tagli negli ultimi cinque anni) e l’assunzione di 10 mila tra medici e infermieri (per strizzare l’occhio anche all’altro sindacato che non ha detto nulla sin qui, forse perché ha ottenuto l’inserimento della professione tra le categorie di lavori gravosi, per i quali non si applica l’innalzamento automatico dell’età pensionabile), “spazzando via – sono parole dello stesso Luigi Di Maio – il blocco del turnover”.
Ma come cittadini ci dobbiamo davvero preoccupare? E le preoccupazioni si devono estendere anche ad altre professioni, dagli infermieri (per restare in tema) ai conduttori di bus e metropolitane? Certo, 80 mila medici in meno è un numero importante. Ma mentre prevedere i pensionamenti è relativamente facile, quello che è meno facile anticipare – e lascia quantomeno perplessi rispetto agli allarmi di questi giorni – è come si evolverà il mercato del lavoro dei medici. Cosa che implica una riflessione, da un lato, su che cosa faranno regioni e governo per rispondere ai pensionamenti (per limitarci al Ssn come datore di lavoro); dall’altro, su che cosa faranno i giovani che si affacciano al mercato del lavoro.
Il futuro del sistema sanitario nazionale
Sul primo punto la riflessione da fare è sul Ssn del futuro. Le politiche degli ultimi decenni – riconoscendo il mutamento del quadro epidemiologico e la necessità di curare le cronicità – hanno giustamente cercato di trasferire risorse dall’ospedale al territorio. Ma lo hanno fatto tagliando i posti letto per le acuzie negli ospedali, con standard fissati dal governo centrale sempre più stringenti e la speranza che le regioni avrebbero poi di conseguenza aggiustato il personale ospedaliero e aumentato i servizi territoriali. Mentre sulla prima parte della politica di riconversione del settore ospedaliero si sono fatti passi importanti, anche se non sempre coerenti, sul resto si sono registrate difficoltà: il blocco del turnover ha aiutato a rivedere le dotazioni dentro gli ospedali, ma a distanza di anni permane una visione confusa della medicina territoriale. Per esempio, siamo ben lontani da un servizio 24-7 che consenta di sgravare sia il pronto soccorso, sia i reparti che in alcuni periodi dell’anno si trasformano in cronicari.
Seguendo questa logica avremo certo bisogno ancora di medici che operano sul territorio, ma non di quelli di ieri; di una nuova figura che sappia seguire i cronici e indirizzare i pazienti, lavorando in equipe. Forse avremo invece meno bisogno di personale dentro agli ospedali, rispetto a un passato anche recente. Insomma, come suggerisce l’Organizzazione mondiale della sanità, parlare dei pensionamenti non serve a nulla, se non si accompagna la riflessione ai bisogni e ai servizi dei quali la sanità pubblica vorrà farsi carico in futuro.
I medici di domani
Peraltro, questo è solo un pezzo della storia: c’è anche l’offerta di lavoro. I giornali hanno ricordato i pensionamenti perché i grandi numeri fanno sempre notizia. Ma si sono scordati di considerare anche il dato a monte: in Lombardia, per esempio, si legge sul sito dell’Enpam, il corso di formazione per medici di medicina generale per il triennio 2017-2020 non è partito per mancanza di iscritti (100 posti a bando e soli 44 iscritti certi a gennaio 2018). E sempre in Lombardia su 670 posti messi a bando dalla regione per medici di medicina generale, 400 sono rimasti liberi (a Milano 62 posti, solo 16 interessati). Questi numeri dicono che la domanda di medici c’è, manca chi ha voglia di fare il medico di medicina generale; dire che ce ne vorrebbero di più (ammesso che servano) renderebbe solo più ampia la forbice.
La riflessione da fare è perché il medico di medicina generale è una professione che non viene più ambita tra i giovani: alcuni sottolineano un problema di riconoscimento sociale; altri la scarsa considerazione della materia all’interno delle università, che si accompagna al fatto che il corso di formazione non rappresenta una vera e propria scuola di specializzazione e prevede borse di importo nettamente inferiore a quelle di altre specialità.
Alcuni paesi hanno già sperimentato la mancanza di medici e infermieri e se la sono cavata in parte importandoli dall’estero. Non è escluso che succeda anche da noi. E i nostri eventuali specialisti disoccupati se ne andranno all’estero.
Fonte: http://www.lavoce.info/archives/51234/medici-lallarmismo-sbaglia-bersaglio/