Più risorse e/o più flessibilità per il SSN? di Cesare Cislaghi

La pandemia da Covid-19 ha evidenziato le numerose carenze del nostro sistema sanitario che peraltro, nonostante questo, non ci fa invidiare quello di nessun altro paese al mondo. Le criticità emerse hanno fondamentalmente due cause: la stretta sui finanziamenti della sanità pubblica attuati per rientrare nei limiti del disavanzo del bilancio dello Stato e l’inerzia a introdurre modifiche del sistema necessarie per le trasformazioni della società.

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Quando la legge che istituiva il SSN fu approvata nel Natale del 1978, cioè più di quarant’anni fa, i valori che la politica esprimeva erano sicuramente migliori di quelli di oggi ed è una fortuna che il nostro sistema sanitario ancora li rispetti, ma la medicina, la società, l’ambiente, le malattie non erano certo quelle di oggi; quarant’anni potrebbero anche sembrare pochi, ma nella stagione che stiamo vivendo sono veramente molti, troppi!

Nel ’78 pensavamo che fossero ormai finite le epidemie e le malattie infettive; avevamo sconfitto il vaiolo, la poliomielite e in buona parte anche la tbc e la malaria; i tumori erano una causa di morte importante, ma non così tanto come nei lustri successivi: la cronicità e l’invalidità degli anziani non era un problema così grave come oggi,  mentre si stava riuscendo a ridurre drasticamente la mortalità infantile.

La medicina e la chirurgia non avevano certo fatto i progressi di oggi: si pensi solo alla cardiochirurgia o anche alla chirurgia ortopedica dell’anziano. Ma soprattutto vi è stato un progresso enorme della diagnostica, ad esempio con la Tac o la RM, ma anche con i test genetici o altri esami di laboratorio.

La popolazione era molto più giovane, le nascite erano il doppio di oggi, c’era sicuramente più povertà e gli ospedali erano anche il luogo dove il malato poteva soggiornare meglio che nella propria abitazione, e non solo la struttura dove apprestare le terapie al meglio e nel tempo più breve possibile.

La medicina specialistica non era certamente così sviluppata e quasi “debordante” come oggi; il medico generalista non delegava quasi tutto allo specialista e possedeva una gran parte delle conoscenze cliniche, cosa che oggi invece non può più succedere perché è troppo vasto ormai il campo della patologia e della clinica medica, e il loro sviluppo è troppo veloce per potersi aggiornare ogni giorno in modo esaustivo.

Con la legge 833 si era aperta la speranza per l’efficacia sia della prevenzione cosiddetta primaria, cioè di intervento sui fattori di rischio, sia per la secondaria cioè di diagnosi precoce delle patologie per interromperne o ridurne l’evoluzione. Diverse speranze si sono realizzate, ma molte invece no e soprattutto la politica sanitaria non ha puntato abbastanza su questi aspetti che non producono consensi immediati come invece fa l’introduzione di nuovi presidi assistenziali. Si è soprattutto separata, ahimè, la prevenzione dall’assistenza e questo anche a causa della separazione della politica ambientale dalla politica sanitaria, separazione creata da un referendum, e dalla divisione dell’igiene pubblica dalla medicina di base. Il MMG non si occupa più, come era un tempo con la unione delle funzioni di medico condotto e di ufficiale sanitario, della prevenzione primaria e neanche della secondaria; gli screening ad esempio, non sono di sua competenza. La situazione pandemica ha evidenziato come i MMG siano stati troppo assenti nel prevenire, diagnosticare e assistere, mentre sarebbe stato necessario e auspicabile che avessero un ruolo determinante.

Molti hanno analizzato le cause questa crisi del SSN e hanno ipotizzato delle soluzioni, ma per lo più non hanno colto un aspetto che ritengo essenziale e cioè la necessaria flessibilità che un sistema complesso come il SSN deve avere rispetto all’avvicendarsi di situazioni straordinarie. Vi è il rischio più che reale di pensare che le necessità di oggi debbano trovare le stesse soluzioni anche domani.

Per fare un esempio banale: oggi le criticità è stato inizialmente l’approvvigionamento delle mascherine e poi i sistemi di respirazione forzata e le terapie intensive attrezzate per le situazioni di gravi problemi respiratori; se dovesse, speriamo di no, riesplodere una epidemia di colera certamente le necessità sarebbero di tutt’altro tipo!

Allora bisogna ragionare soprattutto in termini di flessibilità, cioè di capacità del sistema di riconvertirsi rapidamente in tipologie di intervento sia in misura delle risorse da impegnare.

Una prima e importante flessibilità dovrebbe essere quella delle strutture, e innanzitutto delle strutture ospedaliere. Negli anni passati sono stati dismessi molti nosocomi e durante l’epidemia ci si è accorti di averne invece bisogno, anche solo, ad esempio per farne “alberghi Covid” o viceversa per accogliere pazienti a basso livello di assistenza non più ricoverabili nei reparti destinati ai pazienti Covid. Chiaramente per questi nosocomi dismessi si dovrebbe conservare una manutenzione di basso livello che ne garantisca il riutilizzo a breve termine.

Ma senza il personale avere strutture in più serve a poco e allora si deve in qualche misura copiare ciò che si fa nelle forze armate con i “militari di riserva o di complemento”. Si è ridotto drasticamente in passato il numero degli studenti in medicina e se ciò è stato voluto anche per garantire  la qualità dei processi formativi universitari, non si può negare che l’attacco alla “pletora medica” aveva scopi di natura prevalentemente corporativa. Avere medici e infermieri formati anche se magari occupati in altre attività, permetterebbe di poterli impiegare per situazioni improvvise di emergenze. Naturalmente questo “personale di riserva” dovrebbe trovare periodici aggiornamenti e in ogni caso sarebbero poi loro affidate mansioni di livello adeguato.

Un altro aspetto della flessibilità dovrebbe essere il mantenimento di scorte per i materiali di cui si ritiene possa esserci la necessità improvvisa senza la possibilità di immediata acquisizione o produzione. Per i materiali invece deperibili dovrebbero essere sempre previste  delle forme di “pre-contratto” con i potenziali produttori definendo i tempi reali di acquisizione.

L’aspetto però assolutamente più rilevante è quello organizzativo! Di fronte a nuove esigenze troppo spesso si assiste a una stupida rigidità delle funzioni che talvolta viene creata sia da una difesa dei piccoli propri interessi personali sia da una mancanza di preparazione ad altre funzioni, ma fondamentalmente deriva dalla mancanza di un piano e di una visione organizzativa flessibile. I piani emergenziali non devono essere inutili elaborazioni per soddisfare degli obblighi burocratici, ma devono essere reali piani condivisi di riconversione di ruoli e di funzioni di tutti gli operatori.

È probabile che il prossimo futuro ci presenterà frequenti emergenze improvvise cui non potremo non far fronte come in un passato lontano, ma per le quali  non dovremo ogni volta apparire impreparati perché non solo mancheremmo di essere efficaci, ma facilmente subiremmo costi molto maggiori rispetto a quelli da sostenere per garantire una intelligente previsione.

Quindi concludendo non limitiamoci a chiedere soldi in più o a dilatare i soli servizi che hanno dimostrato delle criticità per le esigenze della pandemia, ma rivediamo tutta l’impostazione del sistema sanitario e ridisegniamolo con un giusto livello di capacità di adattarsi flessibilmente a nuove emergenze.

fonte: E&P

Cesare Cislaghi
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