Muccioli, o dell’Anti Basaglia. di Carlo Miccio

La recente uscita della docuserie SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, recita il sottotitolo – ha avuto come immediato effetto di far ripiombare il paese in un dibattito vecchio di trent’anni, riproponendo gli stessi schieramenti ideologici formati da più o meno le stesse persone.
Io stesso non faccio eccezione: mi sono scoperto fin dal primo accenno alla vicenda sui social – prima quindi di vedere anche solo una puntata del documentario – trascinato in un vortice di discussioni polemiche e agguerrito a sostenere la medesima posizione che avevo trent’anni fa. Posizione sintetizzabile grosso modo in questi termini: Muccioli è stato un demonio capace di impersonificare tutto ciò che di sbagliato si è fatto in materia di droghe in questo paese: la quintessenza di un paternalismo proibizionista che considera crimine quella che è una malattia con profonde radici nel sociale.
Che lo pensassi allora, quando avevo trent’anni di meno, era perfettamente comprensibile e naturale: all’epoca usavo eroina e anche io – come tanti – avevo il problema di riuscire a smettere. E mi era ben chiaro, allora come adesso, che il modello San Patrignano – basato com’era su un’ammissione di impotenza: il tossico (come il matto) è ontologicamente incapace e ha bisogno di qualcuno che decida per lui– era l’esatto contrario di quello di cui avevo bisogno io: ristrutturare me stesso intorno a delle scelte quanto meno assertive, capaci di definirmi come individuo pensante e agente. Io da San Patrignano e dalla sua ideologia mi sentivo personalmente minacciato, e che quindi all’epoca demonizzassi il baffone romagnolo ci stava tutta. Insooma, era una questione di sopravvivenza, per quanto mi riguardava. Ho quindi optato per un combo metadone+psicoterapia e, a tutt’oggi, credo che sia stata una scelta azzeccata. E con questo non intendo dire che metadone+psicoterapia sia la ricetta universale e valida per tutti: dico solo che lo è stato per me. Evidentemente è la persona che va trattata, nella sua individualità – e non certo pensare che una sostanza possa rendere tutti replicanti capaci delle stesse reazioni emotive. Quello era il metodo giusto per me, funzionava. Punto e basta.
Ma questo succedeva nel secolo scorso, mentre adesso ho trent’anni di più e nessun problema di tossicodipendenza a rendere la mia rabbia così pressante: da dove mi esce fuori allora tutto questo risentimento che provo ancora oggi a sentir parlare di Muccioli e dei suoi sistemi nell’esatta maniera in cui se ne parlava trent’anni fa, con schieramenti praticamente identici sui fronti del pro e del contro? Come si fa a uscire da questa coazione a ripetere e riuscire invece a storicizzare l’intera questione – magari senza demandare il compito ad agenzie di produzione televisiva come Netflix?

Provando a darmi una risposta mi è sembrato di trovarla nella data di nascita di San Patrignano. 1978. Lo stesso anno dell’approvazione della Legge 180, impropriamente detta Basaglia, che si proponeva di regolare il trattamento della malattia mentale – categoria madre di cui le dipendenze fanno parte – basandosi su un criterio radicalmente opposto a quello della costrizione usato da Muccioli.
Quello che mi sembra chiaro oggi è che la battaglia di San Patrignano sia stata un episodio fondamentale di una guerra che in quegli anni mirava a delegittimare una nuova concezione di cura, una concezione che vedeva nel paziente un agente attivo di cambiamento e non più solo un recettore di regole decise e amministrate da chi ha più potere di lui. Nell’immaginario della sfavillante Italia degli anni 80 – quella del Martini, di Maradona e del Drive In – Vincenzo Muccioli era l’anti Basaglia per eccellenza, l’uomo che in nome del “senso comune” assegnava un valore curativo a catene e schiaffoni, alla faccia dei teorici di Psichiatrica Democratica di qualunque scienziato saputello arrivato dopo Freud e la Montessori. La sua era la cura del padre, contadino e incapace di diplomarsi (ce lo racconta nel documentario il fratello laureato di Muccioli, accennando a frustrazioni mal sopite) ma onesto e sincero perché ama i suoi ragazzi, come li chiamava lui. Una cura che per secoli aveva funzionato con tutto, e non si vedeva perché non potesse funzionare anche con la droga – e con la malattia mentale.
Tanto più quando gli stessi media che amplificavano il verbo muccioliano, invitandolo ovunque perché faceva audience (e l’audience negli anni ’80 era diventata la nuova religione) iniziarono a usare con criminale insistenza l’espressione “vittima della legge Basaglia” ogni volta che si registravano fatti di cronaca nera con protagonisti pazienti psichiatrici. L’equazione era evidente e sotto gli occhi di tutti – non solo quelli di Red Ronnie: il mondo sognato da Muccioli era un luogo sicuro, quello immaginato da Basaglia invece no.

E adesso quindi mi è finalmente chiaro il motivo di questo risentimento che provo ancora oggi rispetto a quella vicenda: non è solo la consapevolezza di avercela fatta – su un piano personale – grazie a una visione sicuramente più vicina al metodo basagliano che a quello di Muccioli, ma anche la convinzione che tanto del ritardo che questo paese oggi manifesta nel campo delle politiche sanitarie antidroga debba essere ascritto – parafrasando Jovanotti – a quella grande chiesa che da San Patrignano arriva fino a Craxi, Vassalli, Russo Jervolino, Fini, Giovanardi e tutto quel circo di media e politica che per anni ha cavalcato – e continua a farlo – l’onda del Sorvegliare e Punire come unica soluzione possibile per gestire la società in cui viviamo e le sue (nostre?) fragilità.

E questa, per quanto mi riguarda, è forse l’eredità più forte che Vincenzo Muccioli ha lasciato a questo paese: la possibilità di continuare a confondere cura e punizione, e di riuscire a farlo anche riempiendosi la bocca della parola Amore.

fonte: PrimoContatto

FOTO: FORUM SALUTE MENTALE

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