Anziani non autosufficienti, le vittime ignorate dalla politica. di Cristiano Gori

Agli anziani non autosufficienti non è bastato essere la fascia di popolazione più colpita dal Covid-19 per superare lo storico disinteresse della politica nei loro confronti. La legge di bilancio è infatti un passo indietro rispetto al decreto Rilancio.

Un’opportunità dalla tragedia?

I dati su età e profili di fragilità delle persone decedute con il Covid-19 indicano che i più colpiti sono gli anziani non autosufficienti (qui). Per mesi, dunque, ci si è chiesti se la centralità nella tragedia avrebbe almeno sortito anche un effetto positivo: superare lo storico disinteresse della politica nazionale nei loro confronti.

Nel primo decennio degli anni Duemila, gli esperti concordavano nell’identificare alcuni settori sino ad allora trascurati del welfare italiano, da rafforzare attraverso riforme nazionali: disoccupati, poveri, famiglie con figli e anziani non autosufficienti. In seguito, in effetti, sono state realizzate politiche per incrementare le tutele in caso di disoccupazione (Aspi nel 2012, Naspi nel 2015 e Iscro-Indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa prevista quest’anno), per dotarsi di misure di contrasto della povertà (Rei nel 2017 e reddito di cittadinanza nel 2019) e per migliorare il sostegno economico alle famiglie con figli (l’assegno unico in vigore dal prossimo luglio). Lo sforzo riformatore, però, non ha toccato la non autosufficienza.

Gli addetti ai lavori, peraltro, sono unanimi nel ritenere che le criticità dell’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia, sinora fondata su una governance fortemente decentrata, potrebbero essere aggredite solo da una riforma nazionale. Lo stato dovrebbe svolgere due compiti essenziali. Primo, finanziare il necessario ampliamento dei servizi pubblici (domiciliari, semi-residenziali e residenziali) attraverso un’incisiva azione a sostegno di regioni e comuni, che ne detengono la titolarità ma che – da soli – non dispongono delle risorse occorrenti. Secondo, dovrebbe definire alcune nuove regole concernenti gli obiettivi e le modalità di funzionamento del sistema, per migliorare la qualità e l’appropriatezza delle risposte. Questi sono stati, in effetti, gli assi portanti delle riforme introdotte in numerosi paesi dell’Europa centro-meridionale.

Il decreto Rilancio: un primo passo nella giusta direzione

Nella scorsa primavera, il governo sembrava aver compiuto un primo passo nella direzione auspicata, cominciando dai servizi a domicilio. La scelta era stata influenzata dalla notevole attenzione che media e opinione pubblica riservarono, in quei mesi, agli anziani vittime della pandemia. La decisione fu spinta anche dalla generale consapevolezza che in molte aree d’Italia una maggior presenza del welfare pubblico avrebbe consentito di meglio contrastare il Covid-19 e, in particolare, di prevenirne e non solo contenerne il diffondersi.

Il decreto Rilancio di maggio ha così introdotto un nuovo finanziamento di 734 milioni destinati all’assistenza domiciliare integrata (Adi), il più diffuso servizio pubblico erogato a casa degli anziani. La sua portata era cospicua: 734 milioni ammontano a circa il 45 per cento della spesa pubblica dedicata all’Adi, 1,6 miliardi annui (dato 2018, il più recente). Come per le altre voci del Dl Rilancio – un provvedimento di natura emergenziale – si è trattato di uno sforzo una tantum, per il solo 2020 (qui).

Oltre a maggiori fondi, tuttavia, i servizi domiciliari hanno bisogno di un profondo ripensamento dei propri interventi. Infatti, la scarsità dell’offerta è accompagnata in tanti territori dall’incapacità di elaborare risposte consone alle molteplici esigenze legate alla non autosufficienza (si veda l’ultimo Rapporto del Network non autosufficienza. Nel decreto Rilancio il progetto di riforma della domiciliarità non c’era. Si trattava, però, di una mancanza comprensibile non solo per la convulsa situazione della scorsa primavera, ma soprattutto perché, in un ambito così sotto-finanziato, un sostanziale ridisegno degli interventi può essere realizzato solo se accompagnato da uno stanziamento aggiuntivo di natura strutturale.

Se il fondo 2020 si configurava come “risorse una tantum senza progetto”, si faceva strada però la possibilità di passare, in seguito, allo scenario desiderato: “risorse stabili con un progetto”. Sembravano indicarlo peraltro le dichiarazioni dello stesso ministro della Salute (qui). E io stesso ho espresso su questo sito “un ragionevole ottimismo in tal senso” (qui). Purtroppo, mi sbagliavo.

La legge di bilancio: un brusco arretramento

Durante l’autunno, gli anziani hanno continuato a essere le principali vittime della pandemia, ma l’interesse dei media e dell’opinione pubblica nei loro confronti è diminuito. E la politica è tornata al tradizionale atteggiamento di scarsa considerazione per il tema. Di conseguenza, quel fondo 2020 che solo pochi mesi prima sembrava un primo passo verso un promettente percorso riformatore promosso dal livello statale è rimasto un finanziamento una tantum senza futuro.

Vediamo cosa è successo. Nel 2020, il Fondo sanitario nazionale è stato integrato con 3,8 miliardi per finanziare gli interventi previsti in risposta all’emergenza pandemica, quali ad esempio il potenziamento dei servizi ospedalieri emergenziali e di quelli ambulatoriali o l’avvio di nuovi servizi territoriali (come le Usca). I 734 milioni per l’Adi costituivano una quota vincolata di questi 3,8 miliardi.

Per il 2021, l’importo destinato alle varie attività introdotte a seguito della pandemia ammonta a 1,945 miliardi, circa la metà dei 3,8 stanziati nell’anno precedente. E non è più prevista una quota riservata all’Adi. Le regioni dovranno dunque decidere quali interventi, tra quelli attivati nel 2020, portare avanti nel 2021, potendo contare su metà delle risorse (si veda qui).

Per la domiciliarità il quadro è chiaro: non esiste più un finanziamento aggiuntivo certo. Le regioni potranno scegliere di indirizzare all’Adi quote di un fondo – i menzionati 1,945 miliardi – destinato a esigenze di evidente urgenza (poiché la pandemia è ancora in corso), ma dimezzato. Anziché passare da “risorse una tantum” a “risorse stabili” si è ripiegato su “risorse possibili”. È così venuta meno la speranza di avviare un percorso di riforma dell’assistenza domiciliare.

La scomparsa dei 734 milioni del fondo dedicato va poi collocata nel più ampio contesto di una nuova legge di bilancio che non è sicuramente ispirata a una logica di contenimento della spesa e prevede impieghi di risorse pari a 30,949 miliardi di euro per il 2021 (qui).

Viviamo in un paese dove la non autosufficienza è – e sarà, trend demografici alla mano – un fenomeno sempre più imponente e i servizi pubblici dedicati sono notoriamente carenti. Ciononostante, l’aspettativa che il pesante tributo pagato dagli anziani non autosufficienti alla pandemia aiutasse a superare la storica disattenzione riservata loro dalla politica nazionale è durata solo pochi mesi. L’avvio dell’indispensabile stagione riformatrice è, dunque, rinviato.

fonte: lavoce.info

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