Se i dati vengono considerati come la “nuova materia prima” e indicati come essenziali per la “nuova economia”, non possono disporne in maniera esclusiva grandi monopoli privati che ne fanno strumenti essenziali per sfruttare il lavoro, accrescere ricchezze e potere fino ad influenzare le regole democratiche
Da più parti si pone oggi l’esigenza di promuovere grandi investimenti sulle infrastrutture di rete e sui servizi digitali. Non c’è dubbio che questo è un terreno decisivo su cui misurarsi. Per farlo, però, bisogna essere consapevoli dei problemi, delle sfide, dei conflitti che si aprono. Investire sulle tecnologie digitali è necessario ma non è sufficiente. C’è bisogno di un indirizzo e di un autorevole governo pubblico di questi processi.
Oggi, in un contesto globale, pochi soggetti posseggono risorse dall’inestimabile valore e sfruttano sistematicamente ogni singolo “clic” effettuato, per qualsiasi motivo, in qualunque parte del mondo.
La pandemia, ad esempio, ha reso evidente a tutti gli effetti sperequativi che una implementazione digitale non governata può generare ed ha segnato inevitabilmente l’enorme aumento dei profitti dei monopoli digitali: la sola Facebook tra marzo e maggio 2020 ha aumentato del 60% le quotazioni azionarie, mentre Amazon nel primo trimestre 2020 ha registrato utili di 24miliardi di dollari in più rispetto allo stesso periodo del 2019. La ricchezza di questi monopoli? I dati.
Il conflitto – a partire da quello tra capitale e lavoro – non solo non scompare ma coinvolge terreni e questioni nuove. Il possesso della conoscenza e il controllo dei dati diventano elementi decisivi su cui agire il conflitto. Ad esempio, una rivoluzione digitale orientata alla sola logica del profitto ha aperto disuguaglianze tra chi detiene conoscenza, sapere, potere e tante lavoratrici e lavoratori che svolgono lavori ripetitivi e spesso precari. Contrastare la disuguaglianza e la frammentazione del lavoro è un terreno decisivo per il sindacato. C’è, infatti, una battaglia da fare per il riconoscimento di diritti comuni, a partire dal diritto alla formazione permanente e alla conoscenza. Ma c’è di più. Va affermato, anche attraverso il conflitto, che sugli indirizzi della ricerca, dell’innovazione, dell’uso delle stesse tecnologie digitali, non possono essere solo le imprese a decidere. Tanto più quando sul tappeto sono aperte questioni decisive: la sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo, la socializzazione del sapere, la centralità e la qualità del lavoro. Su tali questioni c’è bisogno del protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. Anche per queste ragioni l’innovazione, l’intelligenza artificiale non possono essere lasciate alla logica di mercato. E se i dati vengono considerati come la “nuova materia prima” e indicati come essenziali per la “nuova economia” non possono disporne in maniera esclusiva grandi monopoli privati che ne fanno strumenti essenziali per sfruttare il lavoro, accrescere ricchezze e potere fino ad influenzare le regole democratiche, come ha dimostrato la vicenda di Cambridge analitica.
La stessa Europa ha regolamentato diritti fondamentali tra cui quello alla privacy, con il noto GDPR, e si propone con il Digital service act di intervenire in merito ad elementi essenziali quali la trasparenza, la responsabilità delle piattaforme rispetto ai contenuti veicolati, e la profilazione degli utenti. Nel contempo sta cercando di affrontare anche il tema fiscale e, con il Digital market act, si vuole dotare di strumenti di contrasto ex ante alla posizione dominante dei monopoli digitali. Oggi si presenta forse una ulteriore occasione di regolamentazione. Tra breve infatti dovranno essere presentati i piani per l’utilizzo dei fondi Next Generation EU nei quali grande risalto viene dato al tema della digitalizzazione. Sarebbe importante dunque se nei piani si agisse già coerentemente alle nuove proposte europee e si affermasse esplicitamente le necessità di un governo pubblico del sistema di gestione dei dati volto a costruire un sistema che risponda all’esigenza di appianare e risolvere le ingiuste asimmetrie economiche e sociali. Più volte, anche durante la prima ondata della pandemia, abbiamo evidenziato come le implementazioni digitali, non governate e indirizzate da una strategia pubblica, rischiassero di produrre nuove disuguaglianze.E proprio pensando alla didattica a distanza (e quindi alla presenza su piattaforma privata di tanti studenti e insegnanti), alla creazione di “data base” che gestiscano dati sanitari utili al contrasto della pandemia, alla digitalizzazione della P.A., diventa fondamentale chiedere con forza che si esprima una capacità di governo pubblico, sottraendo la proprietà di questi dati a soggetti privati che le utilizzano a fini commerciali e di profitto. Non è sufficiente, infatti, costruire cloud pubblici, in prospettiva federabili ad altri cloud nazionali e ricondotti in una struttura europea: bisogna evitare processi di concentrazione e centralizzazione di potere in mano a pochi monopoli privati. Al tempo stesso bisogna creare una consapevolezza diffusa e una socializzazione della conoscenza proprio per sostenere un difficile conflitto teso a contrastare disagi, sperequazioni e disuguaglianze.