Il Consiglio europeo ha raggiunto un accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni interne nette di CO2 almeno del 55% entro il 2030. Avrebbe potuto fare di meglio, in ogni caso ora è necessario che si impegni molto di più – anche a livello diplomatico – perché il mondo intero è ancora diretto verso un aumento di 3,2°C per fine secolo (invece che 1,5°C), secondo l’ultimo «Emission Gap Report» dell’UNEP. Inoltre, secondo il rapporto UNEP «State of the Environment and Development in the Mediterranean», biodiversità e clima della regione europea e mediterranea rischiano di collassare, senza un’adeguata accelerazione sulla decarbonizzazione.
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È di venerdì 11 dicembre la notizia della decisione sul clima presa al Consiglio europeo: accordo vincolante «di riduzione interna netta delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990». Nel documento approvato dai capi di stato e di governo dei 27 paesi europei è scritto che per questo occorre sfruttare al meglio il combinato disposto del Quadro Finanziario Pluriennale (il bilancio 2021-2027) e del Next Generation EU (altrimenti noto come Recovery Fund), che in totale raggiunge circa 1800 miliardi di euro, 30% dei quali da usare solo per la transizione ecologica, come lo stesso Consiglio aveva deciso nello storico accordo di luglio. Il pacchetto è finanziato sia con l’emissione di titoli di debito comune europeo (a lunghissima scadenza, anche fino al 2058) sia con l’introduzione di apposite imposizioni fiscali, come quella sul carbonio.
Non è facile stabilire se l’obiettivo sancito dal Consiglio europeo sia o meno ambizioso, anche perché la quota di emissioni di gas serra europei ammonta a quasi l’8% delle emissioni globali, ed è quindi chiaro che serve anche esercitare una forte attività diplomatica internazionale. Nel documento si dice che «il contributo UE determinato a livello nazionale sarà aggiornato in base al nuovo obiettivo vincolante e sarà comunicato al segretariato dell’UNFCCC entro la fine dell’anno», soprattutto in vista della COP 26 che quest’anno (il 2021, perché posticipata causa Covid-19) è, per altro, interamente organizzata in Europa (almeno geograficamente): da Regno Unito e Italia.
L’obiettivo europeo va oltre quanto indicato nel 2018 dall’IPCC – almeno il 45% al 2030 globalmente – ma è anche vero che l’Europa è forse l’area geografica che meglio può decarbonizzare la propria economia, avendo già ridotto secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente1 del 22% le proprie emissioni tra il 1990 e il 2017 (al 2019 del 24%, secondo le stime della Commissione europea). Il Parlamento europeo – tra plenaria e commissioni – aveva infatti cercato di alzare l’obiettivo al 60% se non al 65% entro il 2030; obiettivo sostenuto da realtà come Climate Action Tracker o anche da associazioni ambientaliste come l’italiana Legambiente.
Il Consiglio europeo sottolinea giustamente la necessità di usare il «meccanismo per una transizione giusta [il Just Transition Fund, compreso nel pacchetto Next Generation EU], al fine di realizzare la nostra ambizione in materia di clima», il quale però dispiace ricordare come sia fermo a circa 10 miliardi invece di quei circa 40 miliardi proposti inizialmente dalla Commissione. Il suo ruolo è piuttosto importante, considerando che serve per accompagnare alla transizione ecologica una parallela transizione sociale, in modo da «non lasciare indietro nessuno»; valore fondativo non solo dell’Unione Europea, ma anche delle stesse Nazioni Unite.
Siamo ancora globalmente sulla strada dei 3,2°C
Allargando la visuale dall’Europa all’intero pianeta, l’ultimo Emission Gap Report dell’UNEP2 (qui una sintesi interattiva) conferma che con le attuali politiche climatiche siamo ancora diretti verso un aumento di 3,2°C per fine secolo: come l’anno scorso. Inoltre, la riduzione di circa il 7% delle emissioni causata dalle chiusure anti-Covid-19 non ha portato significativi contributi alla diminuzione della temperatura media terrestre: circa uno 0,01°C. Questo sostanzialmente perché è necessario ridurre le emissioni del 7,6% all’anno, tutti gli anni fino allo zero netto. L’UNEP chiarisce che con opportuni investimenti e azioni programmate – e durante la pandemia sono stati fatti alcuni annunci e presi accordi senza precedenti in questo senso – si può restare sotto il minimo sindacale di 2°C; e con sforzi maggiori anche l’obiettivo 1,5°C è ancora raggiungibile.
In particolare, il rapporto spiega che dal 2010 le emissioni sono cresciute dell’1.4% l’anno con un aumento più rapido del 2,6% nel 2019 a causa di un forte aumento degli incendi boschivi. L’UNEP sostiene che una ripresa verde post-Covid-19 potrebbe ridurre le emissioni annuali a 44 GtCO2e (giga tonnellate di CO2 equivalenti) entro il 2030, invece delle circa 59 GtCO2e previste, tuttavia ancora insufficienti: entro il 2030 serve infatti abbassare le emissioni di 32 GtCO2e, rispetto ai Nationally Determined Contribuitions «incondizionati», per l’obiettivo 1,5°C (di 15 GtCO2e per l’obiettivo 2°C).
Figura 1. Grafico tratto dall’«Emission Gap Report 2020» dell’UNEP che mostra di quante GtCO2e è necessario ridurre le emissioni annuali di gas serra al 2030 per ciascuno degli obiettivi climatici, riferendosi ai diversi impegni politici (gli NDCs). Nello scenario compatibile con un aumento fino a 2°C le emissioni annuali al 2030 devono essere intorno alle 41 GtCO2e, nello scenario compatibile con un aumento fino a 1.5°C le emissioni annuali al 2030 devono invece essere intorno alle 25 GtCO2e.
Nel frattempo, però, Biden è stato eletto 46° presidente degli Stati Uniti e questo può impattare positivamente sugli scenari climatici. Secondo stime riportate nel rapporto, il piano climatico di Biden-Harris può contribuire ad abbassare di 0,6°C-0,7°C la temperatura a fine secolo che quindi porterebbe lo scenario attuale da 3,2°C a circa 2,5°C.
Ruoli e responsabilità dei ricchi
«I ricchi hanno la responsabilità maggiore: le emissioni dell’1% della popolazione globale più ricca rappresentano più del doppio della quota combinata del 50% dei più poveri», una sproporzione enorme, per cui questi paesi devono ridurre la propria impronta di un fattore 30 per rimanere in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Oltre a questo, l’Emission Gap di quest’anno ricorda che i soli paesi del G20 rappresentano ben il 78% delle emissioni globali.
A questo riguardo l’UNEP elenca i membri del G20 che hanno obiettivi di neutralità climatica:
Francia e Regno Unito, che hanno sancito legalmente i loro obiettivi per le emissioni di gas a effetto serra pari a zero entro il 2050; l’Unione europea, che mira a raggiungere l’obiettivo di emissioni di gas a effetto serra pari a zero entro il 2050; la Cina, che ha annunciato piani per raggiungere la neutralità del carbonio prima del 2060; il Giappone, che ha annunciato un obiettivo di emissioni di gas a effetto serra pari a zero entro il 2050; la Repubblica di Corea, il cui presidente ha impegnato il paese a diventare neutrale dal punto di vista del carbonio entro il 2050 in un discorso al Parlamento; il Canada, che ha indicato la sua intenzione di legiferare un obiettivo di emissioni di gas a effetto serra pari a zero (anche se non è chiaro se ciò si riferisca alla sola CO2 o a tutti i gas serra) entro il 2050; il Sud Africa, che mira a raggiungere emissioni nette di carbonio a zero entro il 2050; e l’Argentina e il Messico, che sono entrambi parte dell’Alleanza per l’ambiente climatico dell’UNFCCC lavorando per raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050.
Focus Europa: clima e salute
Dopo il rapporto di settembre sullo stato del Mediterraneo del CMCC, anche l‘UNEP ha pubblicato il suo «State of the Environment and Development in the Mediterranean»3 a fine ottobre, che delinea tra le altre cose lo stato di clima e biodiversità d’Europa e della regione mediterranea. In estrema sintesi, usando le parole dell’UNEP: «Nonostante alcuni progressi, la crescita economica continua ad aumentare il consumo di risorse e le emissioni di carbonio».
Il Mar Mediterraneo da un lato è un hot-spot climatico e dall’altro ospita fino al 18% delle specie marine del pianeta nonostante rappresenti meno dell’1% della superficie oceanica mondiale. Tra le specie endemiche più a rischio c’è la Posidonia Oceanica, altresì nota come «polmone del Mediterraneo», a causa sia della crisi climatica in atto, che del sovra-sfruttamento degli ecosistemi soprattutto per la pesca. Effettivamente, la popolazione euro-mediterranea è cresciuta da 475 a 512 milioni dal 2010 al 2018, e per di più un terzo della popolazione del Mediterraneo vive proprio nelle zone costiere, esercitando sempre maggiore pressione sulle limitate risorse marine.
Il bacino del Mediterraneo è di circa 1,54°C sopra i livelli preindustriali e, secondo le previsioni, raggiungerà i 2,2°C quando la media globale toccherà la soglia di 1,5°C. Questo comporterebbe una riduzione delle «precipitazioni estive di circa il 10-15% in alcune zone, mentre un aumento da 2°C a 4°C comporterebbe una riduzione delle precipitazioni fino al 30% nell’Europa meridionale, soprattutto in primavera e in estate». Il riscaldamento atmosferico farebbe aumentare anche la temperatura dell’acqua, che potrebbe essere anche fino a +3,5°C per fine secolo, alimentando il processo di acidificazione e conseguente deterioramento della biodiversità marina – e degrado della qualità dei servizi ecosistemici per l’uomo.
Oltre all’acidificazione, l’aumento di temperatura può determinare anche l’innalzamento del livello marino fino a circa 3 centimetri per decennio, contro i 7 millimetri per decennio del periodo 1945-2000. Per di più le sempre più popolose zone costiere, dice il rapporto UNEP, sarebbero colpite anche dall’aumento di piogge estreme e siccità che contribuiranno ad aumentare il rischio di inondazioni ed erosione delle coste – rischi che purtroppo si farebbero sentire maggiormente nei paesi meridionali del Mediterraneo, dove «i sistemi di monitoraggio sono limitati e la capacità di adattamento è generalmente inferiore rispetto al nord».
Alla luce dell’attuale situazione pandemica conviene riportare che le tendenze climatiche attuali
contribuiranno alla futura trasmissione di malattie trasmesse da vettori [come le zanzare], alimenti e acqua. Le aree con un’alta probabilità di catturare il virus del Nilo occidentale, legato al cambiamento climatico, probabilmente si espanderanno e alla fine includeranno la maggior parte dei paesi mediterranei.
Focus Europa: biodiversità
Il mediterraneo, secondo anche quanto scritto sopra, è considerato un hotspot della biodiversità: più di 17.000 specie marine, di cui dal 20% al 30% endemiche. Questa ricchezza porta benefici straordinari per il benessere umano, come la capacità di mitigare gli impatti delle inondazioni, la fornitura di acqua dolce e naturale la cattura del carbonio.
Purtroppo, le zone umide del Mediterraneo stanno subendo una perdita di habitat del 48% dal 1970 e «circa 1.238 specie terrestri costiere sono state identificate dalla IUCN come a rischio di estinzione. Tra i principali fattori di estinzione delle specie vi sono il turismo, le attività ricreative, l’urbanizzazione, l’agricoltura e l’allevamento di specie invasive». Questo è il motivo per il quale serve infittire la rete di Aree Marine Protette che, ad oggi, arrivano a circa 1.200, cioè l’8,9% del Mar Mediterraneo. Nonostante questo sia vicino al target 11 della Convenzione di Aichi e all’obiettivo 14 dell’Agenda 2030 – cioè raggiungere nel 2020 il 10% di copertura – «solo il 10% circa di questi siti attua correttamente i piani di gestione, a causa della mancanza di risorse finanziarie e di personale qualificato, nonché di lacune legali e politiche».
Governance e partecipazione pubblica
Per l’Europa e il Mediterraneo, così come per il resto del mondo, serve integrare i diversi livelli di governance locale, nazionale e globale, tra nazioni e tra organismi esistenti, e quindi tra aree di competenza diverse (per esempio terrestre e marina). Per altro, come ricorda l’UNEP3, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UNCLOS) impone «ai paesi che condividono un mare chiuso o semichiuso di cooperare tra loro per coordinare la gestione, la conservazione, l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse viventi del mare e per proteggere e preservare l’ambiente marino»; anche se non sono tutti all’interno dell’Unione Europea, per intenderci. Un ulteriore impegno viene dalla Convenzione di Barcellona, in particolare dalla sua Strategia Mediterranea per lo Sviluppo Sostenibile (MSSD) adottata nel 2016 dai contraenti della legge quadro: tutti i firmatari sono tenuti a declinare l’Agenda 2030 dal livello regionale a quello nazionale.
Il miglioramento e perfezionamento della governance ambientale passano anche per la partecipazione informata dei cittadini, così come sancito da un’ulteriore accordo internazionale: la Convenzione di Aarhus. Se infatti il processo decisionale è partecipato, porta sia a decisioni migliori che a una maggiore fiducia del pubblico nelle istituzioni. A oggi, ricorda l’UNEP, solo 12 dei 22 paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno firmato la Convenzione di Aarhus. Sempre in questa prospettiva, nel 2014 è stata adottata la Strategia mediterranea per l’educazione allo sviluppo sostenibile (MSESD), prima al mondo nel suo genere; che, per altro, riconosce lo stesso valore educativo sancito anche dal target 4,7 della già citata Agenda 2030. Su questo è doveroso ricordare che nel 2019, tra i primi al mondo, l’Italia ha introdotto 33 ore annuali di Educazione Civica tra cui insegnamenti di sviluppo sostenibile e cambiamenti climatici, dandone annuncio alla COP25 di Madrid lo scorso dicembre.
D’altra parte, la partecipazione alle decisioni politiche serve altresì a legittimare e rafforzare il rapporto tra scienza e politica, come ricorda l’UNEP3; interfaccia questa oggi più che mai vitale.
Volendo in poche righe fare un consuntivo dello stato del clima al 2020, potremmo dire che: non siamo ancora sulla giusta strada, malgrado i numerosi miglioramenti soprattutto recenti; l’Europa, in questo contesto, ha fatto e dovrà fare da traino per il resto del mondo, sia a livello scientifico che politico; gli impegni planetari che stanno fiorendo per risollevarsi dalla crisi pandemica accendono una luce di speranza – considerata anche la già citata vittoria di Joe Biden – che deve assolutamente essere mantenuta accesa attraverso un maggiore dialogo internazionale. Sappiamo come uscirne, basta volerlo.
Bibliografia
[1] EEA, The European environment – state and outlook 2020, 2019: https://www.eea.europa.eu/publications/soer-2020
[2] UNEP, State of the Environment and Development in the Mediterranean, 2020: https://www.unep.org/resources/report/state-environment-and-development-mediterranean
[3] UNEP, Emission Gap Report 2020, 2020: https://www.unep.org/emissions-gap-report-2020
fonte: SCIENZA IN RETE