Sazi da morire. di Sandro Spinsanti

I medici hanno accettato il ricorso alla sedazione palliativa permanente per pazienti in fine vita ma si sentono spiazzati nel caso in cui la domanda di suicidio assistito venga da una persona sana.

 Un film passato in televisione in Germania nell’ottobre scorso ha riscosso un notevole successo di pubblico e non cessa di suscitare un ampio dibattito. Si tratta di Gott, su sceneggiatura di Ferdinand von Schirach, avvocato e scrittore di best seller. L’argomento non è teologico, come il titolo potrebbe far credere. Di fatto Dio (Gott) appare solo all’inizio del film, sotto forma di una scenografia che attraverso i riquadri che compongono la parola lascia intravvedere una piccola assemblea, qualificata come comitato etico. Un ristretto pubblico siede sui banchi in ascolto, mentre si susseguono degli esperti chiamati ad esprimere il loro parere sul caso in discussione. I partecipanti rappresentano un pubblico ben più vasto, ovvero tutti i cittadini: ad essi la presidente del comitato si rivolge in diretta, alla fine del confronto, affinché prendano posizione ed esplicitino il loro parere con un sì o con un no.

Il caso, dunque. Un signore di 78 anni, vedovo da poco e con l’esperienza di una moglie morta male, con insufficienti cure palliative, ha chiesto alla propria dottoressa un farmaco per poter porre fine alla propria vita. È sano, ma è stanco di vivere. Ritiene di aver diritto ad anticipare la propria morte. È questo il centro nevralgico del dibattito che si svolge nel comitato etico: i medici possono/devono accondiscendere a un desiderio di morte di un paziente, indipendentemente se sia giovane o vecchio, malato o sano, anche quando non si tratta di un malato terminale?

Viene ascoltato il candidato al suicidio assistito, che espone le sue ragioni; ha la parola la dottoressa, che rifiuta l’aiuto che le viene richiesto. Poi, in sequenza, scorrono tre punti di vista, da tre angolature diverse. Sono interrogati una docente di diritto costituzionale, un presidente dell’ordine dei medici e un vescovo cattolico. Le loro argomentazioni contro il diritto del singolo di decidere sulla propria vita, incluso se e quando porvi termine, subiscono il contraddittorio, con perizia e abile dialettica, dell’avvocato che assiste l’aspirante al suicidio. Il diritto, la deontologia professionale, la teologia avanzano le loro riserveche si scontrano con una cultura dell’autodeterminazione come leitmotiv del discorso culturale oggi prevalente. Non a caso il grande pubblico, chiamato a dare il proprio voto dopo il film e il dibattito che ha fatto seguito, si è espresso per il 70% a favore del diritto al suicidio assistito del protagonista.

L’intento dell’iniziativa non era quello di indurre a una conclusione su una questione così delicata e conflittuale ottenuta a forza di like. L’esplicito invito era a portare in pubblico una riflessione che non può essere riservata solo all’ambito della coscienza individuale. L’architettura giuridica dei diritti personali e della protezione sociale dei più fragili, il punto di vista della spiritualità religiosa: altrettanti ostacoli a spianare la via alla discrezionalità nel porre fine alla vita. Nel film risuonano – più o meno convincenti – gli ammonimenti a evitare la china scivolosa, se si imbocca quella via; alla necessità di avere una solidarietà sociale, che non lasci solo l’individuo; alla sacralità della vita. Ma sono i medici a trovarsi nella condizione più delicata, perché sono loro ad avere in mano le risorse farmaceutiche che permettono di fare il salto oltre la vita. E se pur hanno in maggioranza accettato il ricorso alla sedazione palliativa permanente per pazienti in fine vita, quando la richiesta nasce da una condizione terminale che provoca sofferenze insostenibili, si sentono spiazzati nel caso in cui la domanda di suicidio assistito venga da una persona sana. Incalzati dall’abile avvocato, sono invitati ad articolare le loro ragioni per opporsi. 

Per lo più la loro linea di difesa è di trincerarsi, come fa il presidente dell’ordine, dietro il giuramento di Ippocrate. Nel film di von Schirach l’avvocato ha buon giuoco nel mettere in imbarazzo il rappresentante dei medici quando ricorre a questa argomentazione. Evidenzia gli scostamenti della pratica medica attuale dalla lettera del giuramento, nonché i cambiamenti intervenuti nel tempo. I medici accettano ora interventi esplicitamente vietati nel giuramento e – argomenta l’eloquente avvocato – fino a non molto tempo fa si opponevano alla pillola anticoncezionale proprio con l’argomento della china scivolosa che avrebbe condotto allo sconvolgimento dei costumi sessuali. Il riferimento al giuramento, rito ancora celebrato al conseguimento della laurea, ha ancora un significato che trascenda il ruolo di un cimelio di cui fregiarsi?

Anni fa un illustre medico, l’anatomopatologo Giacomo Mottura, ha affrontato un riesame molto documentato dello sviluppo delle regole che si richiamano al comportamento “ippocratico” nel corso dei secoliIl giuramento di Ippocrate. I doveri del medico nella storia (ed. Riuniti 1986). La sua conclusione è che il valore del giuramento va al di là del feticcio che il medico appende al muro e dell’elenco delle regole specifiche relative a ciò che il medico può fare o non può fare: “Si tratta di dare una risposta al ‘Chi me lo fa fare’, motto terribilmente sconfortante quando lo si sente usare cinicamente, appunto come replica senza risposta”. A dare evidenza alla frase, possiamo immaginare anche il gesto – le dita chiuse, mosse con movimento ripetuto dal basso verso l’alto – che accompagna retoricamente il “chi me lo fa fare?”… È su questo orizzonte che ci piace incontrare un’indicazione sullo spirito che dà forma alla professionalità del medico. È appunto questo spirito che permane saldo, malgrado le trasformazioni delle regole sotto l’incalzare dei cambiamenti culturali. Oltre le regole, che possono cambiare con lo sviluppo della società e di ciò che viene ritenuto giusto e appropriato, intravvediamo l’orizzonte del “perché” ci si dedica all’attività di cura. Idealmente, nessuna risposta è esauriente, se la si colloca entro l’ambito degli interessi personali. Il giuramento induce a fare una mossa di lato – come quella che spetta al cavallo nel gioco degli scacchi – cercando una giustificazione su un livello diverso, confrontandosi con la domanda retorica del “chi me lo fa fare”.

Siamo consapevoli che non è agevole trovare una risposta alla richiesta di morte per sazietà di vita. Ma siamo confortati dal sapere che il terapeuta che ha fatto proprio lo spirito del giuramento, senza nascondersi dietro la lettera, accetterà di confrontarsi con chi l’avanza. Che la sua risposta sia di accettazione o di rifiuto della richiesta, sarà frutto di un ascolto e di una “conversazione” – a cominciare, letteralmente, dal volgersi l’uno verso l’altro, guardandosi in viso – condotta in profondità, non di una fuga da un terreno che scotta. Per attingere ancora dalle conclusioni a cui giunge Giacomo Mottura: “Non solo nelle trovate scientifiche, ma anche nella zona limite delle comuni possibilità umane i prodigi si rinnovano”. È esagerato invocare un prodigio per parlare della cura, dalle sue connotazioni più semplici a quelle più complesse? Senza appellarsi a miracoli ed eroismi, è pur sempre vero che la cura come attività professionale rimane uno degli impegni esistenziali che richiedono di elevarsi sulla punta dei piedi sulla terra.

www.sandrospinsanti.eu

fonte: saluteinternazionale.info

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