In Italia alla base dell’alta mortalità provocata dalla pandemia c’è anche la debolezza strutturale dell’assistenza territoriale e della medicina di famiglia.
È stato detto pure al telegiornale: nella pandemia da Covid-19 in tutte le case ci dovrebbe essere un saturimetro. Prima della pandemia nemmeno una parte dei medici di famiglia ne aveva uno; adesso ne parlano tutti, qualcuno ne ha comprato due o tre per confrontare i valori. L’aneddotica talvolta confina col comico come un paziente con mani fredde che cerca lo specialista, convinto di desaturare (ovvero di avere livelli troppo bassi di ossigeno nel sangue). Per il resto stava benissimo: afebbrile senza tosse, con una funzionalità respiratoria perfetta, ma l’ansia di una eventuale infezione guidava i suoi pensieri. Non sapeva che la scarsa circolazione abbassa falsamente la saturazione.
Senza dubbio il saturimetro è di grande utilità, particolarmente nella pandemia. Per un motivo in parte fisio-patologico, in parte non ancora chiarito, l’ipossia nel Covid-19 viene sopportata meglio, spesso non c’è grande dispnea, anche con una saturazione molto bassa, verificato con la pressione parziale dell’ossigeno nell’emogasanalisi. La differenza tra parametri bassi e la scarsa dispnea del malato rimane per i clinici spesso sconcertante. Misurano una mancanza d’ossigeno quasi incompatibile con la vita, ma il paziente parla senza grandi problemi al telefono[1]. Per questo motivo qualcuno l’ha chiamato “ipossia felice”, oppure ipossia silente. Questo si è capito nella prima ondata a Bergamo, quando decisero di distribuire saturimetri a casa perchè la sintomatologia da sola non era affidabile.
Adesso quasi ogni casa in Italia ha un saturimetro. Ci dice se respiriamo, se dobbiamo andare in ospedale, se possiamo morire. Perciò tutti si monitorizzano, chi una volta al giorno chi ogni cinque minuti. Ma soprattutto lo fa chi ha il Covid-19. Tutti sanno che valori bassi possono evolvere in una insufficienza respiratoria anche grave e anche in poco tempo. Una paziente che ha avuto il coronavirus a marzo in Francia con due settimane di febbre alta racconta: “La cosa peggiore è la paura, la paura di peggiorare, di non respirare, di dover essere messa sotto un casco, di essere intubata e di non fare in tempo. Per i primi dieci giorni non ho dormito quasi mai, fissa con lo sguardo sul saturimetro.” La paziente era seguita nel Sud della Francia, ogni due giorni veniva chiamata e a necessità qualcuno veniva a casa.
L’Italia, com’è noto, è stata colta alla sprovvista dalla pandemia. All’inizio mancava l’essenziale per poter assistere a domicilio le persone, per poterle trattare tempestivamente e seguirne l’evoluzione. Veramente pochi erano i medici di famiglia disposti a farlo, alcuni dei quali ci hanno pure rimesso la vita. Furono per questo create – con un decreto del 7 marzo – le USCA (Unità speciali di continuità assistenziale). Costituite da un medico e un infermiere, dovevano essere attivate in dieci giorni, entro il 20 marzo, da tutte le Regioni e province autonome con lo scopo di gestire l’assistenza e la sorveglianza dei malati Covid che si trovano in isolamento domiciliare. Doveva essere una misura d’emergenza in attesa che le cure primarie e la medicina di famiglia si riorganizzassero per essere in grado di prendere in carico questi pazienti.
Dopo la prima ondata questa riorganizzazione non si è verificata e il processo di attivazione delle USCA nelle varie regioni è avvenuto a macchia di leopardo, con realtà più attrezzate, altre molto meno come dimostra un’indagine di Quotidiano sanità pubblicata lo scorso 27 novembre.
Ma le USCA sono uno strumento per l’emergenza, con un rapporto (previsto dal decreto) di una unità per 50.000 abitanti, e non possono sostituire la rete capillare dei medici di famiglia. Per questo capita sempre più spesso (in relazione al grado di diffusione della pandemia) che i pazienti si sentano abbandonati, come il caso – nel Lazio – di un carabiniere, positivo per motivi di servizio, che racconta: “Mi hanno fatto il tampone, positivo. La ASL mi doveva chiamare; non l’ha fatto mai in 15 giorni, mai. Per non parlare dei contatti che ho avuto. Sono ansioso per la salute anche senza Covid. Ero solo con mia moglie e il saturimetro: è andato tutto bene. Però la paura continua era di essere abbandonato, di non far in tempo di arrivare in ospedale, sappiamo tutti che le ambulanze sono ferme davanti ai Pronto Soccorsi, dove non ci sono posti letto. Il Tar ha deciso che i medici di famiglia non devono venire a casa, ma telefonare lo potrebbero. Il mio non ha chiamato mai. Solo sul territorio con un saturimetro. E come avere un elettrocardiografo quando si ha un infarto e poi ? Chi legge l’elettrocardiogramma e chi mi cura?”
Nella Newsletter del 20.11.20 dell’Ordine dei Medici di Roma il vicepresidente e coordinatore Luigi Bartoletti afferma che gli equipaggi coordinati dall’Ares del 118 sono sei, vanno nelle case per verificarne lo stato di salute, dodici invece i team dedicati alle visite domiciliari su richiesta delle aziende sanitarie, fanno 15-20 visite al giorno per circa mille visite la settimana. Da notare che i malati COVID a domicilio il 27 novembre scorso erano 84.172 (circa 3400 i ricoverati e 355 in terapia intensiva).
Il Tar del Lazio ha accettato la posizione secondo cui i medici di famiglia non sono obbligati a visitare a domicilio. Una seconda sentenza ha dato di nuovo ragione ai medici di famiglia, dicendo che è compito delle USCA. Complicato seguire i litigi dentro il sistema: medici di famiglia, che anche se non vanno a casa, stanno giorno e notte a telefono; qualcuno va pure a casa, qualcuno non è raggiungibile. Così capita che un paziente dopo l’esito di un tampone positivo sia sfortunato: il medico di famiglia non risponde, le USCA non sono attivabili, il numeri delle ASL sempre occupati.
Ma il saturimetro è stato comprato e si è spesso soli con numeri non ben decifrabili, senza assistenza e conforto.
Da tutto questo emerge un sistema che non ha retto nella prima ondata e tanto meno nella seconda: il tempo tra una e l’altra è passato senza potenziare i servizi. Tanto è stato detto e scritto sulla necessità di rivedere la medicina del territorio per affrontare adeguatamente non solo una pandemia, ma anche la gestione delle tante cronicità che non possono essere affidate a una medicina troppo ospedalocentrica. In un’intervista dello scorso 25 novembre, rilasciata al Corriere della Sera, il Professor Garattini interviene su questo tema: “Oggi c’è grande sfiducia tra medico di base e ospedalieri, mentre tutti dovrebbero far parte dello stesso servizio sanitario nazionale. Qual è la ragione per cui esiste una categoria distaccata di professionisti? Se c’è resistenza tra i diretti interessati si cominci con i giovani, assumendoli nello stesso comparto sanitario dei medici ospedalieri.” Nei prossimi anni ci saranno tantissimi pensionamenti di medici di famiglia e ci saranno soldi per la sanità, una proposta che potrebbe rivoluzionare il territorio.
In questa seconda ondata della pandemia ci siamo assuefatti nel vedere i Pronto Soccorso stracolmi di malati anche non gravi: sono gli abbandonati a casa, magari soli, hanno paura, tanta paura e si capisce. I gravi arrivano tardi anche nel timore di stare giorni in ambulanza o su una barella. Ci illudiamo pensando che l’altissima mortalità italiana è solo per l’età media più alta o perché eravamo i primi ad essere colpiti (come se Wuhan non ci potesse insegnare qualcosa). Gli ultimi dati dell’European Center of Disease Control aggiornati al 2 dicembre dicono che l’Italia ha avuto un tasso di mortalità di 15,1/100,000 abitanti negli ultimi 14 giorni (Figura 1): più di Francia, Spagna e Gran Bretagna, paesi che sono anche stati fortemente colpiti con problemi nel servizio sanitario e che hanno una struttura demografica simile. Dobbiamo ammettere che ciò è dovuto anche a causa dell’abbandono assistenziale sul territorio, dove troppi non sono guidati e seguiti. Lasciati soli con un saturimetro.
Dagmar Rinnenburger, pneumologa
Bibliografia
- Martin J. Tobin , Franco Laghi , and Amal Jubran. Why COVID-19 Silent Hypoxemia Is Baffling to Physicians. https://doi.org/10.1164/rccm.202006-2157CP
fonte: saluteinternazionale.info