Per la sanità italiana serve un grande piano occupazionale. di Marco Geddes

Gentile Direttore,

nel corso di questa pandemia le emergenze a cui le istituzioni, in particolare Governo e Regioni, devono far fronte, sono molteplici e l’urgenza di assumere provvedimenti – non sempre attuati con la indispensabile tempestività – è di ostacolo all’avvio di azioni la cui efficacia si paleserà solo a distanza. Il mancato avvio di tali misure si evidenzierà tuttavia drammaticamente nel volgere dei prossimi anni.

Mi riferisco in particolare alla questione più rilevante che  emerge in questi mesi: la carenza di personale infermieristico e medico.

Un’emergenza a cui, nel breve tempo, si possono porre alcuni limitati rimedi, ma che necessita fin da ora – ma più esattamente fin dall’inizio della pandemia nel nostro paese – di una pianificazione di investimenti e di provvedimenti normativi e organizzativi che si esplicano nel corso del  decennio.

Nel 1998, di fronte alle rilevanti carenze strutturali degli ospedali, furono messe in campo ingenti risorse (30.000 miliardi) il cui utilizzo, con appositi piani e procedure, ha portato alla realizzazione di una rete rilevante di Presidi ospedalieri. Dieci anni dopo, per iniziativa dell’allora Ministro Rosy Bindi, fu varato un ulteriore piano di finanziamento (Piano straordinario di interventi per la riqualificazione dell’assistenza sanitaria nei grandi centri urbani, articolo 71 L. 448, 23/12/1998), mirato prevalentemente alle strutture territoriali.

Abbiamo ora necessità di un’analoga iniziativa per fare fronte alla carenza più rilevante, di cui i passati Governi portano non poche responsabilità: la mancanza di risorse umane. La risorsa fondamentale che caratterizza i servizi alla persona e, in primo luogo, quelli di cura.

L’accesso con numero razionalmente programmato al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia è pianificato in relazione alle esigenze della nostra sanità e, sotto tale profilo, necessita di adeguate, ma non eccessivamente complesse o aleatorie, verifiche in riferimento al ritmo di pensionamento del personale. Conseguentemente risulta del tutto irrazionale che persista, da anni, un successivo imbuto formativo rappresentato dall’accesso alle Scuole di specializzazione.

Questo imbuto rappresenta un disastro; uno spreco di anni di vita professionale – e non solo – di tanti giovani colleghi; una sottrazione di necessarie risorse alla comunità del nostro Paese.

Guardando solo all’anno 2019 il sommarsi degli esclusi dalle specializzazioni, di quelli dalla formazioni in Medicina generale e degli abbandoni, nel tentativo di transitare dall’uno all’altro percorso formativo, assommano ad oltre 9.000 medici (Associazione Liberi Specializzandi: Novemila medici nell’imbuto formativo: la mala programmazione formativa dei giovani medici italiani).

Un’adeguata programmazione dovrebbe prevedere un rapporto laureati/accesso alle specializzazioni di 1/1,1, al fine di tener conto  delle inevitabili rinunce per scelta di sede o di settore e alla necessità di potenziare alcune professionalità che sono meno ricercate e maggiormente deficitarie, quali la Medicina d’urgenza e le Terapia intensiva. Specialità peraltro – sia detto fra parentesi –  che non favoriscono certo la libera professione intramoenia.

Dovrebbe prevedere inoltre una definizione dei bisogni di personale da parte del Servizio sanitario nazionale, in base a cui l’Università adegui la sua capacità formativa  (nell’auspicio che la formazione dei MMG abbia analogo percorso accademico) trasformando il penultimo  e l’ultimo anno di specializzazione in contratto di formazione a carico del SSN, più remunerativo per lo specializzando, ovviamente sotto la tutela della Scuola di formazione. Si libererebbero così le risorse del Mur per aumentare il numero delle borse. Su questo fronte da tempo il colloquio fra i due Ministeri non pare particolarmente fruttuoso!

Il settore più carente è tuttavia quello infermieristico. Fra i paesi europei l’Italia si colloca al 21° posto su ventisette, con un rapporto di 5.7/ 1.000 abitanti, contro una media europea dell’8.2.

Il confronto con gli altri paesi desta francamente vergogna. Senza voler fare un paragone  del rapporto infermieri/popolazione con Norvegia (17.7) o Svizzera (17.6), guardiamo a: Germania (13.2), Irlanda (12.9), Francia (10.9), Gran Bretagna  (7.8), Austria (6.9). Anche la Spagna, che nel 2009 era, in tale graduatoria, dietro il nostro Paese, ci ha superato di due punti decimali! (OECD, Health at a Glace: Europe 2020)

Questa è la grande emergenza, ciò che rende difficile attivare nuovi posti letto, specie in Terapia intensiva nonchè la causa principale della crisi delle RSA, ulteriormente svuotate di personale infermieristico, che preferisce l’ospedale anche per ragioni contrattuali.

È indispensabile attivare di un piano pluriennale di formazione del personale, la predisposizione di benefit, attraverso forme di welfare aziendale,  che facilitino la formazione e il lavoro (alloggio, asili nido) poiché ci si rivolge prevalentemente a personale femminile, che è stato, sotto il profilo lavorativo, maggiormente penalizzato da questa crisi.

Necessita inoltre un adeguamento salariale e una ridefinizione delle funzioni professionali che valorizzi la crescita formativa che si è avuta in questi anni, affiancando agli infermieri  un numero più cospicuo e competente di OSS, in particolare nelle RSA.

Non si tratta solo di far fronte a questa emergenza, ma di predisporsi al mutare dei bisogni e dei prevedibili andamenti epidemiologici futuri.

Un impegno decennale, che porti la presenza infermieristica rispetto alla popolazione  a livelli analoghi alle altre nazioni europee, come l’Austria e la Gran Bretagna, comporta un incremento di personale infermieristico di 100.000 unità.

Non è un traguardo per il prossimo anno – ovviamente  – ma un obiettivo da porsi e programmare fin da ora e da attuare in un decennio. Un piano occupazionale che aumenterebbe i redditi e conseguentemente i consumi tramite l’inserimento in una attività indispensabile; una iniziativa rivolta a incrementare l’occupazione femminile e infine anche un rilevante piano formativo, nella convinzione che un capitale umano superiore aumenta la produttività e la crescita economica e morale.

Marco Geddes da Filicaia

fonte: Quotidiano Sanità Lettere al direttore 

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