Rosy Bindi, già ministra della Sanità, riflette sulle debolezze del Ssn da correggere per tornare a un servizio pubblico e universale capace di garantire pienamente uno dei nostri diritti costituzionali (intervista di Roberta Lisi su Collettiva)
Il sistema sanitario nazionale, nonostante il grandissimo sforzo di operatori e operatrici, mostra tutti i suoi limiti. È la riforma del ’78 che non è più adeguata o cosa?
Innanzitutto dobbiamo ricordare che la sanità italiana è sotto organico da anni, sia per quanto riguarda i medici, sia per alcune specializzazioni particolari, come gli anestesisti, sia per tutte le professioni sanitarie. Non è la riforma del ’78 che sta mostrando i suoi limiti, sono la mancata piena applicazione dello spirito di quella riforma e le tante ferite che ha subito in questi decenni con interventi che si sono configurati come vere e proprie controriforme che hanno determinato l’attuale debolezza del nostro sistema sanitario. Se fosse stata pienamente applicata la legge 833, se non avesse subito le violenze della controriforma De Lorenzo, se non fosse stata sottoposta alla creatività organizzativa alla quale alcune regioni si sono abbandonate, se fossero state applicate pienamente le riforme della seconda metà degli anni Novanta, quelle dei governi Prodi – D’Alema, credo che la nostra sanità oggi sarebbe stata in grado di far fronte molto meglio alla sfida del Covid, e forse saremmo anche riusciti a neutralizzare l’effetto imprevedibilità che tutte le urgenze e le emergenze portano con sé. La riforma non è affatto superata ma oggi dobbiamo fare i conti con questi gravi ritardi e spero che la lezione sia stata appresa.
Quali sono le ferite più gravi che sono state inferte alle legge 833 a suo giudizio?
La più grave è sicuramente quella che negli anni ha reso il diritto alla salute un diritto finanziariamente condizionato. La 833 conteneva le norme, le indicazioni, i controlli perché la spesa fosse – appunto – tenuta sotto controllo attraverso una corretta programmazione e l’analisi dei bisogni di salute, perché chiaramente la salute non ha prezzo ma la sanità ha un costo. Nella riforma del ’78, la sanità non era considerata un settore contro il quale si accaniscono le finanziarie per tenere a bada il debito pubblico. Credo che, prima di tutto, il diritto alla salute è stato trasformato in un diritto troppo condizionato dalle risorse economiche. Il risultato è un sistema sotto finanziato negli anni in maniera cronica, e questo ha sicuramente prodotto alcune debolezze. Pensiamo al personale, alla mancata uniformità dei servizi su tutto il territorio nazionale, alla non capacità di innovare il sistema che porta con sé qualità delle cure ma anche spesso risparmio di costi. Questa è la prima ferita della quale è stata responsabile tutta la politica. Sicuramente il centrodestra porta le responsabilità più grandi, ma anche i governi di centro-sinistra hanno sottovalutato che un fondo sanitario sottostimato non avrebbe assicurato quei livelli essenziali di assistenza previsti nella nostra Costituzione. Poi, sicuramente, c’è stata l’applicazione di un malinteso concetto di aziendalizzazione. L’aziendalizzazione doveva e dovrebbe servire a non sprecare le risorse pubbliche, che comunque sono risorse limitate, e anche risorse private a carico delle famiglie progressivamente aumentate in questi anni, ma è uno strumento, un mezzo che non può mai diventare un fine. E invece, purtroppo, soprattutto in alcuni modelli organizzativi è diventata un fine a cui si è spesso sacrificata la tutela della salute. L’altra grande ferita è quella che inferta da un’applicazione sbagliata della riforma del Titolo V. Il federalismo sanitario ha finito per creare 21 sistemi sanitari regionali la cui sommatoria non necessariamente porta a un unico servizio sanitario nazionale. In questi anni abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a una creatività organizzativa di modelli sanitari da parte delle regioni che ha finito per mettere a rischio gli stessi principi del sistema. Ad esempio, penso al rapporto pubblico privato improntato al concetto della competizione e non dell’integrazione. L’introduzione di regole di mercato dentro il sistema sanitario ha visto dilapidare risorse e ha visto sicuramente stravolgere il concetto di salute contenuto nella legge 833. Ma altri cardini della riforma del ’78 sono stati disattesi, come l’integrazione e la continuità assistenziale tra territorio e ospedale, tra servizi sanitari e assistenziali. Oggi la differenza dei modelli organizzativi emerge in modo drammatico. Il Covid ha mostrato deficienze strutturali del nostro sistema, in particolare – lo ribadisco – tutta questa difformità di modelli organizzativi che ha finito per rompere l’unità del sistema. Il diritto alla salute non è garantito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale ma la risposta non può essere semplicemente i commissariamenti che hanno come obiettivo solo quello di far quadrare il bilancio.
Torniamo per un momento alla questione del personale. Il governo ha stanziato risorse per le assunzioni, ma le regioni non trovano né medici né infermiere e infermieri.
Questo problema attiene al rapporto tra università e sanità. Anche questo è un problema. Non abbiamo ancora capito che chi comanda, o meglio chi dovrebbe comandare ovvero indicare le necessità e gli obiettivi del Ssn, non è può essere l’università ma la sanità. È la sanità che deve dare regole, indicare i numeri di quanti operatori servono, fare programmazione. Non può subire le esigenze autoreferenziali del mondo universitario.
Quali sono le priorità da cui partire per ricostruire il sistema sanitario?
Sarebbe necessario che il Parlamento e le Regioni approfittassero della sfida del Covid per interrogarsi su quale sistema sanitario vogliono. Senza infingimenti, con un’operazione di chiarezza. Se si vuole ritrovare il valore della legge del ‘78 i modelli regionali vanno in qualche modo corretti, là dove si sono allontanati dalle norme e dai principi della 833 e della riforma del ’99 che ne aveva attualizzato le finalità. Ma questa correzione di rotta non deve tradursi in un’operazione centralistica. Non si può immaginare di procedere con imposizioni, occorre far leva sulla volontà politica dei diversi territori, coinvolgendo tutte le realtà con un’azione di armonizzazione e coordinamento da parte del governo. Se si sceglie di rilanciare il sistema pubblico vanno quindi assicurati finanziamenti adeguati a garantire uniformità dei livelli essenziali di assistenza e vanno sviluppati interventi mirati, di sostegno in quei territori dove ci sono gravi lacune e ritardi, con una presa in carico effettiva di quelle realtà. Si deve intervenire inoltre sugli aspetti che oggi risultano più carenti e problematici, con risorse e progetti adeguati destinati a tutto il personale, alla ricerca, all’innovazione tecnologica, al governo della spesa farmaceutica. Ma in questo momento, credo che l’attenzione principale vada riservata alle cure primarie, il segmento finora trascurato. Occorre rivedere in qualche modo la convenzione con i medici di famiglia, rilanciando il ruolo distretto sanitario prevedendo delle figure pubbliche di cure primarie non solo tra gli infermieri ma anche tra i medici.
In tutto questo torna centrale la questione della natura pubblica della sanità e dell’universalità del servizio.
Esattamente. È stato un errore introdurre senza freni o regole un principio di profitto nel sistema. Non è accettabile lucrare sulle fragilità della persona malata e sui bisogni di salute. Chi fa impresa in questo settore deve sapere che per entrare nel sistema pubblico si deve accettare la logica della programmazione e del controllo delle risorse che sono pubbliche, e sono destinate a promuovere la salute di tutti e non a moltiplicare i profitti di pochi. La regola della competizione del mercato non si può applicare al Ssn fondato su un principio di equità come quello dell’universalità. Il rapporto tra pubblico e privato nel sistema sanitario non può che essere quello dell’integrazione basato su regole chiare e trasparenti. Non è pensabile una spartizione delle risorse del sistema sanitario tra pubblico e privato che finirebbe per favorire le imprese private svincolare dagli oneri anche etici del sistema pubblico, occorre preservare attraverso la programmazione e il controllo dei risultati il primato pubblico della sanità.
fonte: Collettiva