Il 1977 fu uno dei non pochi anni “dei giovani” dell’Italia contemporanea: i non garantiti, gli indiani metropolitani, la festa e la sessualità. E fu proprio allora, mentre si celebravano le passioni e le fantasie di una insorgenza collettiva destinata a un epilogo tragico, che Domenico Modugno cantò Il vecchietto. A riascoltarlo, colpisce il malinconico verismo della figura di quel nonno che, cacciato di casa e trovate chiuse tutte le porte, si reca in un ospedale, dove un medico gli fa presente che «abbiamo gente pure dentro al cesso».
Così l’infelice, una volta morto, fatica prima a trovare un loculo al cimitero, poi «va a finire che non c’è posto neppure nell’aldilà». Insomma, non era necessario attendere i fratelli Coen per scoprire che una società industriale Non è un paese per vecchi. Ma è anche vero che per oltre mezzo secolo la Lotta della Gioventù contro i Vecchi, fattore vitale dello sviluppo della civiltà, non ha assunto la valenza, per certi versi, definitiva che sembra aver acquisito ora, con l’irruzione della pandemia nella vita sociale.
Oggi, il conflitto in corso — una vera e propria lotta di classe generazionale — si presenta con connotati inediti. Non è l’uccisione del padre di tutte le mitologie classiche e di tutte le simbologie psicoanalitiche, anche se quello (l’eliminazione del padre e del padre del padre) può essere l’esito di un’ulteriore regressione. Oggi, piuttosto, siamo in presenza di una sorta di accelerato e forzato avvicendamento demografico, che potrebbe portare alla formazione di una società mutila, dotata di un corpo centrale robusto e tarchiato e, tuttavia, privo dell’agilità e della creatività dell’infanzia e, al contempo, della maturità e della saggezza dell’età avanzata.
E così, nell’Italia della più acuta crisi della natalità, riflessa in numeri temibili (nel 2019, 647mila decessi a fronte di 420mila nuovi nati) che disegnano una società rattrappita, emerge un cruciale problema-anziani. Ed emerge, ecco la novità, come una questione “per il loro bene”, riassumibile così: per salvare i vecchi è necessario proteggerli. Per proteggerli è necessario lasciarli a loro stessi. Il conflitto sembra, dunque, tra salute fisica e benessere psicologico, tra maggiore possibilità di sopravvivenza e isolamento sociale, tra separazione generazionale e abbandono esistenziale. Insomma, tra immunizzazione del Vecchietto e suo confino in una condizione di penuria relazionale e affettiva. Ed è questo il cuore vero di tutta la discussione pubblica intorno alle misure restrittive previste per le festività e al tema dei ricongiungimenti e degli assembramenti domestici. Sia chiaro: tutto ciò può non avere una dimensione necessariamente drammatica. Può ridursi a una temporanea e proficua misura di profilassi, ma tende in ogni caso a produrre effetti nocivi e ansiogeni.
Lo sviluppo della pandemia nel corpo della nostra organizzazione sociale incontra nuclei familiari e reti parentali spesso incapaci di autotutelarsi, se non attraverso un processo di frantumazione. O, almeno, questo è il timore dei più deboli tra i membri di quelle stesse comunità (anziani e vecchi, appunto). E questo all’interno di una società sfilacciata, dove il numero delle famiglie unipersonali (single) costituisce il 33% dell’intera popolazione e, in città come Roma, è poco sotto la metà di essa, mentre a Milano, la supera. Una moltitudine di persone sole che, raggiunta l’età più avanzata, vedono moltiplicarsi i fattori di vulnerabilità. Di conseguenza, l’incontro, la relazione, “l’assembramento”, diventano urgenza vitale. E questo spiega, almeno in parte, perché mai un rito come il “cenone di Capodanno”, per tanti noioso e indigesto, diventi la posta in gioco di una parossistica competizione che oscilla tra ideologia e Confesercenti, tra osservanza della tradizione e sacrosanti interessi dei produttori di pandoro.
Dunque, se non sapremo risolvere con equilibrio la controversia tra tutela della salute collettiva e integrazione dei più vecchi e stanchi tra noi, questa può essere l’anticipazione di uno scenario da incubo, del quale già numerosi sono i segnali: una Società dello Scarto che condanna all’insignificanza e all’oblio chi, semplicemente, non regge il ritmo.
Fonte: LA REPUBBLICA – 2 DICEMBRE 2020