La seconda ondata ha messo una volta di più in evidenza la storica arretratezza della nostra medicina di famiglia. Con l’eccezione del Veneto.
“Tampone dai medici di famiglia, siglato l’accordo. Speranza: “‘Li ringrazio‘. Saranno fatti negli studi o in altri spazi: 50mila tamponi rapidi antigenici al giorno tra medici e pediatri”. Così titolava Repubblica lo scorso 28 ottobre, riportando i termini di una intesa che prevede lo stanziamento di 30 milioni di euro, con 18 euro al professionista per ogni tampone fatto nel suo studio e 12 euro se il test viene somministrato in una struttura della Asl.
A distanza di quasi un mese quell’accordo è rimasto di fatto lettera morta, applicato da un’esigua minoranza di medici, nonostante l’accordo prevedesse l’obbligatorietà della prestazione. Un flop peraltro ampiamente annunciato, vista l’immediata reazione del presidente dell’Ordine dei medici di Milano che parla di una “rivolta dei condomini” nel caso che i medici di famiglia comincino a fare tamponi rapidi nei loro studi: “Non so cosa verrà fatto qui in Lombardia, come ci si organizzerà, ma posso assicurare che in contesti come gli studi nei condomini, specie in realtà urbane come Milano e hinterland o Brescia, questa cosa è semplicemente impossibile”.
Missione impossibile anche per Claudio Cricelli, medico di famiglia a Firenze e presidente della Società italiana di medicina generale (Simg), che, intervistato dal Fatto Quotidiano, afferma: “Il medico il più delle volte lavora da solo e va in tilt, solo alcuni gruppi associati possono permettersi un segretario e un infermiere. Il punto debole è proprio l’assenza di un team professionale. (…) Noi non riusciamo da soli a fare diecimila cose insieme, dai tamponi ai vaccini, alle visite in ambulatorio, a domicilio, alle ricette, rispondere al telefono e alle centinaia di richieste di chiarimento che arrivano via mail o su whatsapp. Abbiamo bisogno di personale. E dell’aiuto dei nostri assistiti, che devono fare chiamate brevi e in orari definiti. Oggi spendiamo dalle 4 alle 5 ore solo per rispondere al telefono, inevitabilmente qualcosa poi trascuriamo”.
Che il territorio – e in primis la medicina di famiglia – non fosse attrezzato a fronteggiare la pandemia lo si era drammaticamente visto nel corso della prima ondata. Un’ondata che aveva trovato impreparato l’intero sistema e aveva subito travolto la prima linea di resistenza, soprattutto in Lombardia dove i servizi territoriali pubblici – dai servizi di prevenzione alle cure primarie – erano stati nel tempo completamente spogliati di strutture organizzative e di risorse. Per garantire un minimo di assistenza domiciliare erano state “inventate” le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), che dovevano rappresentare una risposta emergenziale, in attesa di una riorganizzazione delle cure primarie e della medicina di famiglia che restituisse ai medici di medicina generale (MMG) e ai pediatri di libera scelta (PLS) il necessario e anche doveroso ruolo nell’assistenza dei pazienti affetti da Covid.
La seconda ondata – più vasta e più distruttiva della prima – ha messo ancora di più in luce le fragilità del nostro sistema sanitario, come ha dimostrato la surreale storia dei tamponi: l’impossibilità di garantire nell’intero territorio nazionale l’erogazione di una prestazione – essenziale per il controllo della pandemia – da parte dei medici di famiglia.
Una domanda è d’obbligo. Com’è possibile che gli attori che erano intorno al tavolo per trattare l’accordo – Ministro e Direttori generali del Ministro e vertici del Sindacato – non si rendessero conto che imporre l’esecuzione di una semplice, ma necessaria, prestazione da parte dei MMG era una missione impossibile? Forse confidavano sul fatto che l’offerta di qualche milione di euro avrebbe stimolato l’attivismo della categoria. O forse pensavano che bastasse un annuncio – indipendentemente dal risultato – per segnalare l’ingresso in campo dei MMG nella partita contro la Covid. Ma l’esecuzione di un tampone Covid non è come fare una vaccinazione antinfluenzale. E fare soltanto l’annuncio rischia – come è avvenuto – di trasformarsi in un autogol.
Questa storia dei tamponi è infatti la dimostrazione che la medicina di famiglia italiana è una risorsa indisponibile nei momenti di massima difficoltà del SSN, come nel caso dell’attuale pandemia (e non dimentichiamoci che ci troviamo nella morsa di una doppia pandemia: da Covid e da malattie croniche). Tutto ciò – conseguenza di una storica arretratezza organizzativa e formativa – non è accettabile, non solo per il danno che provoca alla salute della popolazione, ma anche per il rispetto che si deve ai tanti giovani medici di famiglia che si affacciano alla professione e che si trovano a lavorare loro malgrado in condizioni proibitive.
Per questo rinnoviamo al Ministro della salute, Roberto Speranza, la proposta di organizzare un tavolo di confronto con le organizzazioni che rappresentano questi giovani medici (vedi Lettera aperta al Ministro della salute) ed in particolare con il gruppo che fa capo alla Campagna PHC Now Never che ha recentemente pubblicato e promosso il Manifesto Verso il Libro Azzurro, che contiene in 12 punti gli elementi essenziali per il rinnovamento e il rilancio delle cure primarie e della medicina di famiglia. Al centro della loro proposta c’è l’idea di un lavoro collegiale, svolto all’interno di strutture adeguate (Case della salute), basato su interprofessionalità e interdisciplinarietà, sulla prossimità, capillarità e proattività degli interventi socio-sanitari, per agire in maniera integrata e coordinata verso i bisogni di salute complessi delle comunità. Esattamente quello che servirebbe oggi per garantire ai cittadini un punto di riferimento territoriale certo dove – separando i percorsi – sia possibile da una parte diagnosticare tempestivamente, tracciare e assistere i pazienti Covid e dall’altra garantire l’assistenza a tutti gli altri pazienti: diabetici, ipertesi, etc. Nel Manifesto ci sono anche altre idee tra cui quella di una formazione di livello universitario e di una nuova forma di contratto di lavoro. Insomma tutto quello che serve per fare entrare aria nuova in un mondo idealmente ancorato alle pratiche di due secoli fa.
L’eccezione veneta
Il Veneto, pur circondato da Regioni rosse e arancioni, continua a rimanere zona gialla, anche grazie ai dati descritti nella figura sottostante che registra la percentuale di pazienti Covid-19 ricoverati in terapia intensiva e area non-critica nelle varie Regioni. In entrambi i casi il Veneto, al 18 novembre, si trova al di sotto delle soglie di allerta.
Sola alla fine della pandemia sarà possibile confrontare le performance delle varie Regioni e valutare i fattori che hanno agito in senso positivo o negativo. Quello che si può dire finora è che in Veneto i servizi territoriali e la medicina di famiglia hanno retto meglio che nel resto d’Italia. Anche le idee che circolano hanno il sapore della novità e di una seria riflessione sul ruolo della medicina di famiglia. In un precedente post avevamo riportato la posizione dell’Ordine dei medici di Verona sulle strutture dei medici di medicina generale (vedi Casa della salute da campo): “L’epidemia da coronavirus ha, fra l’altro, evidenziato l’inadeguatezza delle sedi fisiche di molte medicine di gruppo. Manca, infatti una tipologia urbanistica e architettonica specifica per questa modalità assistenziale; le sedi sono spesso ricavate ristrutturando spazi commerciali al piano terra di edifici ad uso abitativo e commerciale. La recente esperienza suggerisce che vengano progettati spazi appositi che comprendano ad esempio, un locale da adibire ad “ambulatorio sporco” e dotazioni di DPI di emergenza stoccati in previsione di una emergenza, nonché spazi dedicati alla segreteria e al personale infermieristico. I Comuni dovrebbero, da parte loro, predisporre nella loro programmazione urbanistica spazi e standard urbanistici appositi per queste attività”.
Lo stesso Ordine, in un documento approvato alla fine dello scorso agosto (vedi Risorse), reputa necessario prepararsi alla seconda ondata proponendo una serie di raccomandazioni, che riguardano l’organizzazione territoriale. Viene riproposta la necessità di adeguare le sedi dei MMG, dove possano operare gruppi di 10 MMG (per una popolazione di 15 mila abitanti) con la presenza di personale infermieristico e amministrativo, dotato di attrezzature per intervenire anche a domicilio. Fondamentale – si legge nel documento – la collaborazione bidirezionale tra MMG e Dipartimento di prevenzione, dove il medico di famiglia agisce come “propaggine avanzata del Dipartimento stesso”, facendosi anche carico dell’effettuazione del tampone.
Non deve quindi stupire che in Veneto la medicina di famiglia – fin dallo scorso marzo – non abbia rinunciato a garantire l’assistenza, anche domiciliare, ai pazienti Covid e si prepari ora su larga scala – di qui l’eccezione veneta – ad applicare l’accordo sui tamponi antigenici dello scorso 28 ottobre, come si legge in un contributo scritto dal Dr. Giuseppe Turrini (vedi Risorse): “In questi giorni la cooperativa sta mettendo in pratica l’accordo tra MMG e AULSS9 scaligera per il potenziamento dei servizi erogati dalla medicina generale con l’ausilio di strumenti di diagnostica di primo livello e il coinvolgimento nell’attività di indagine epidemiologica da virus COVID-19. Questo accordo prevede che il MMG, previa valutazione clinica, utilizzi i tamponi antigenici rapidi durante l’attività ambulatoriale o domiciliare, a favore dei propri assistiti”. Al momento sono già una cinquantina i MMG veronesi che stanno eseguendo i tamponi per i propri assistiti.
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