Protezione popolazione generale e addetti a compiti sanitari
Il lockdown totale, con la radicale diminuzione della mobilità individuale, ha sicuramente arginato il dilagare dell’epidemia, riducendo R0, che esprime il numero d’infezioni secondarie generate da un individuo infetto durante l’intero periodo infettivo, in una popolazione suscettibile, al tempo 0 di un’epidemia.
Lo hanno provato, tra gli altri, due economisti dell’Università Federico II di Napoli e dell’Università della Basilicata (Alfano, Ercolano) costruendo un dataset longitudinale con osservazioni da paesi di tutto il mondo e un gruppo di epidemiologi dell’Università di Modena e Reggio Emilia per quanto riguarda specificamente le Regioni dell’Italia del Nord (Vinceti). R0 è direttamente proporzionale alla probabilità di trasmissione del virus al singolo contatto, alla durata della fase di contagiosità del caso primario, e, soprattutto, al numero di persone incontrate per giorno dal caso. È sul terzo parametro che funziona il lockdown; tuttavia, la strategia del “tutti in casa”, che molti paesi hanno dovuto adottare per evitare il collasso degli ospedali, comporta i danni economici, sociali e psichici a tutti noti. Per evitare il ripetersi di lunghi periodi di chiusura totale, occorrerebbe che la popolazione si attenesse con convinzione alle misure di limitazione della diffusione ambientale del virus, che vanno a incidere sui primi due parametri che determinano R0.
Come si propaga il virus
Il primo passo per raggiungere questa convinzione è comprendere le modalità con cui si propaga l’epidemia. Il mondo intero oggi chiama “droplet” quelle che alla facoltà di Medicina si studiavano come “goccioline di Flügge”, dal cognome del batteriologo tedesco che nel 1897 fornì la prova balistica che i micobatteri della tubercolosi si diffondevano tramite lo spray emesso ad alta velocità dal naso e dalla bocca. Ci riuscì contando scrupolosamente le colonie di microrganismi che crescevano sulle piastre di coltivazione (appena inventate da Julius Petri, assistente del professor Koch) colpite dalle secrezioni espulse da volontari che avevano gargarizzato l’innocuo Chromobacterium prodigiosum.
La scoperta ebbe un seguito immediato: nello stesso anno, due chirurghi, l’austriaco Johann von Mikulicz-Radecki e il francese Paul Berger cominciarono a proteggere le loro operazioni dalla possibile contaminazione dei patogeni salivari, indossando quello che Berger descrive come “un impacco rettangolare di sei strati di garza, … tenuto contro la radice del naso da corde legate dietro al collo”. Dopo 15 mesi, Berger divulgò la conseguente riduzione delle infezioni, chiosando:
Mi rendo conto che questo sia uno shock troppo grande per l’abitudine dei miei colleghi e non m’illudo di ricevere un’accoglienza molto più favorevole di quella accordata dai chirurghi tedeschi a un’analoga comunicazione del professor Mikulicz
Non sbagliava: l’idea che la bocca di un chirurgo fosse una fonte d’infezione fu ridicolizzata da più parti e un certo Terrier è passato alla storia solo per aver dichiarato: «Non ho mai indossato una maschera e sicuramente non lo farò mai» (Spooner).
Nel 1964, Ronal Hare, su Proceedings of the Royal Society of Medicine, ha precisato che la quantità delle goccioline di Flügge espulse varia in rapporto al tipo di emissione del fiato, con un gradiente in aumento che passa dal respirare a riposo al parlare, all’urlare, al cantare, al tossire e allo starnutire.
Infine, nell’era dei computer (e degli spillover), uno studio di aerodinamica (Bourouiba) del laboratorio Fluid Dynamics of Disease Transmission del Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha confermato il modello binario dei droplet, postulato già nel 1930: essi possono essere grandi e descrivere un arco nell’aria prima di cadere a terra per gravità, oppure piccoli (<10 µm di diametro) e andare alla deriva in un aerosol. In questo secondo caso, le particelle mucosalivari escono con il fiato avvolte in un bozzolo di gas caldo (puff) che le preserva dall’evaporare e le fa arrivare lontano, fino a sette-otto metri (ben oltre il distanziamento sociale raccomandato).
La dose infettiva di virus, in base agli studi sui coronavirus di MERS e SARS, sembra essere piccola (tipo mille particelle), purché il tempo di esposizione sia adeguato, secondo la formula: infezione = quantità di virus x tempo (Rodriguez).
Fattore quantità
Un singolo respiro, a seconda della sua forza di emissione, rilascia tra le decine e le migliaia di goccioline; la respirazione nasale ne rilascia una quantità minore. Nella maggior parte dei casi, i droplet sono lenti e precipitano immediatamente. Parlare aumenta, proporzionalmente al tono della voce, il numero di droplet emessi, i più piccoli dei quali tendono a nebulizzare.
Un singolo colpo di tosse rilascia circa tremila goccioline che viaggiano veloci. Un singolo starnuto rilascia un numero dieci volte superiore di droplet, dieci volte più veloci, che coprono grandi distanze (attraversano facilmente una stanza). Le goccioline di ogni colpo di tosse o starnuto di una persona infetta possono disperdere nell’ambiente, in ogni direzione, fino a 200 milioni di particelle virali: alcune restano nell’aria, altre si depositano sulle superfici, la maggioranza precipita al suolo. Se il colpo di tosse o lo starnuto sono emessi in una stanza, può inalare una quantità infettante di particelle virali persino chi vi entri alcuni minuti dopo (attenzione agli ascensori!).
Poiché i droplet finiscono per depositarsi da qualche parte, un rischio di contagio potrebbe derivare anche dalle superfici contaminate (fomites): di qui, la precauzione di lavare spesso le mani e di non toccarsi il viso.
Il canto vaporizza i droplet molto più di una conversazione e la respirazione profonda che esso comporta facilita l’inalazione del virus sospeso nell’aria: viene spesso ricordata come tipico evento super-diffusore la prova del coro dell’Università di Washington del 10 marzo, in cui un singolo individuo asintomatico contagiò la maggior parte delle persone presenti (che pure cantavano distanziate, in una sala delle dimensioni di un campo di pallavolo).
Fattore tempo
Se si è vicini a una persona infetta che si limita a respirare, servono cinquanta minuti per assumere le mille particelle necessarie a contagiarsi (può succedere se si condivide un ufficio). Se la persona parla, la quantità di goccioline rilasciate aumenta di molte volte e per raggiungere la dose minima infettante basta parlare faccia a faccia per dieci minuti/un quarto d’ora.
La trasmissione di un patogeno è eterogenea, tanto che nel 1997 l’infettivologo dell’Università di Edimburgo Mark Edward Woolhouse ha ricavato da studi osservazionali e da modelli matematici la cosiddetta regola del 20/80 (il 20% degli individui di una data popolazione è responsabile dell’80% della trasmissione di un patogeno). Nel 2011, Richard Stein, biologo molecolare di Princeton, ha precisato che R0 ha certamente un significato importante, ma non tiene conto del cosiddetto “fattore di dispersione k”, cioè del ruolo ricoperto da alcuni individui, così come da alcuni eventi e circostanze, di “super-diffusori”, così definiti quando una persona infetta ne contagia almeno altre tre.
Come ha provato uno studio giapponese (Nishiura), negli ambienti chiusi la possibilità di trasmissione del virus è quasi 20 volte superiore che all’aria aperta. Non a caso, i maggiori eventi super-diffusori noti si sono sviluppati in contesti in cui molte persone sono state faccia a faccia, impegnate in conversazioni, urla e canti e, per lo più, in ambienti chiusi: feste (matrimoni, compleanni), funerali, raduni religiosi, sport al coperto, incontri di lavoro a distanza ravvicinata, sale di ristoranti, specie se presenti bocchette per l’aria condizionata. Non rientrano tra gli eventi super-diffusori accertati molte altre forme di attività umana aggregata, come il cinema, il teatro, i viaggi seduti in treno e sull’autobus, tutte situazioni in cui la gente è spesso circondata da estranei, che forse, però, stanno prevalentemente fermi e zitti o parlano a bassa voce.
Chi diffonde il virus
La cautela del distanziamento fisico è rivolta a evitare le goccioline salivari non solo dei malati, ma anche delle persone che trasportano il virus nel proprio orofaringe senza avere sintomi di malattia. In un editoriale sul New England Journal of Medicine, Monica Gandhi, che insegna Malattie infettive al San Francisco General Hospital dell’Università della California, ha definito la questione dei portatori asintomatici “il tallone d’Achille delle strategie di salute pubblica anti Covid-19”.
Tutte le tattiche di tracciamento e quarantena pensate ipotizzando una somiglianza sostanziale tra il nuovo coronavirus e quello emerso nel 2002-2003 si sono rivelate inadeguate, per la manifesta divergenza delle due traiettorie epidemiche: in nove mesi, SARS-CoV-1 si è eclissato dopo aver infettato 8.096 persone in una trentina di paesi, mentre, alla fine di ottobre, SARS-CoV-2 ha già infettato oltre 40 milioni di persone (con oltre un milione di morti) e ancora corre in ogni parte del pianeta.
Gli asintomatici (o, fino a prova contraria, pre-sintomatici) potrebbero essere un fattore chiave di questa enorme differenza di contagiosità: mentre la replicazione del precedente coronavirus avveniva soprattutto nelle vie aeree inferiori, questo nuovo si dissemina dalle vie aeree superiori, anche di chi non ha sintomi. Inoltre, nel 2003 il picco di carica virale arrivava insieme all’esordio dei sintomi, mentre nell’attuale epidemia una carica virale importante può essere rilasciata anche cinque giorni prima che i primi sintomi si manifestino, secondo una revisione della letteratura fatta al Trinity College di Dublino (Walsh).
All’ospedale Chatitè di Berlino hanno appurato che la carica virale non differisce in relazione all’età (Jones) e che cambia durante il corso dell’infezione; la reale durata della contagiosità non è ancora stata misurata ma, probabilmente, non coincide con la reperibilità di RNA nei campioni.
Il distanziamento da solo non è sufficiente
Da sola, la regola del distanziamento (di 1 o 2 metri) serve, quindi, a proteggere l’individuo in caso di breve esposizione o d’interazioni all’aperto, ma è poco efficace negli spazi chiusi in cui si trascorre molto tempo: in una revisione Cochrane del 2011 (Jefferson), più che il distanziamento sociale hanno dato prove d’efficacia nella riduzione della trasmissione dei virus respiratori il lavaggio frequente delle mani (specialmente da parte dei ragazzi) e l’uso delle mascherine chirurgiche o FFP2.
L’uso della mascherina è, dunque, una misura di protezione che occorre aggiungere al distanziamento, perché riduce sia la quantità di virus rilasciato nell’ambiente da un eventuale infetto, sia (in misura diversa secondo il tipo) quella inalata da chi la indossa.
L’abitudine (imposta) è ora quasi entrata nella prassi quotidiana, ma nei primi mesi dell’epidemia era oggetto di opinioni contrastanti, come emerge dalla lettura di due documenti comparsi nello stesso mese: il 13 febbraio, pneumologi di Pechino e di Yale scrivevano, in una lettera a Lancet intitolata “Protecting health-care workers from subclinical coronavirus infection”, che le prove raccolte in Cina della possibile contagiosità dei portatori asintomatici giustificavano
misure di protezione adeguate [i DPI, ndr] per garantire la sicurezza di tutti gli operatori sanitari in presenza di un focolaio di epidemia da COVID-19 – o di future epidemie – soprattutto nelle fasi iniziali, in cui le informazioni sono ancora limitate su trasmissione e potenza infettiva del virus (Chang)
Quattordici giorni dopo, le linee guida dell’OMS “Rational use of personal protective equipment for coronavirus disease 2019 (COVID-19)” replicavano:
Per gli individui asintomatici, indossare mascherine di qualsiasi tipo non è raccomandato. Indossare maschere quando non è indicato può causare un costo non necessario, uno spreco di risorse e creare un falso senso di sicurezza che porterà a trascurare altre essenziali misure preventive
La frase è stata poi eliminata dalla riedizione del 6 aprile, quando, però, il direttore generale dell’OMS Adhanom Ghebreyesus Tedros ancora ammetteva che le mascherine continuavano a essere raccomandate solo per i malati e chi li assisteva, ma assicurava che l’OMS avrebbe continuato a raccogliere tutte le prove utili a valutare un uso più ampio a livello di comunità, dando la precedenza agli operatori sanitari. Questa esitazione ha causato la diffusione del virus nei reparti il cui personale era escluso dalle protezioni individuali dal protocollo OMS, come le medicine interne, le geriatrie, le ginecologie e ostetricie, le neurologie, nonché tra i medici di medicina generale.
Che le mascherine debbano comunque costituire una protezione aggiuntiva e non sostitutiva rispetto al distanziamento è spiegato da un piccolo, ma ben condotto esperimento sudcoreano (Bae): la contaminazione trovata sulle loro superfici prova che né le mascherine di cotone né quelle chirurgiche sono un filtro efficace per le particelle di SARS–CoV-2 quando espulse con la tosse e rinforza l’importanza di mantenere le distanze e di lavarsi le mani dopo averle maneggiate. Già nel 2008, uno studio uscito sull’American Journal of Infectious Diseases (Oberg) aveva dimostrato che le mascherine chirurgiche non filtravano le particelle tra 0,08 e 0,14 μm, che sono le dimensioni stimate nel 2003 dal gruppo di Thomas Ksiazek dei CDC di Atlanta per SARS-CoV-1 e che potrebbero essere quelle delle particelle di SARS-CoV-2 in aerosol.
Prove d’efficacia delle mascherine
A parziale espiazione dei suoi ritardi, l’OMS ha finanziato una revisione sistematica con metanalisi, pubblicata in giugno su Lancet (Chu), di 172 studi osservazionali condotti in 16 nazioni di vari continenti e di 44 studi comparativi su SARS, MERS e Covid-19, da cui risulta che nelle regioni con alta incidenza di Covid-19, l’uso della mascherina esteso a tutte le persone e combinato con il mantenimento della distanza interpersonale di almeno un metro (che, da sola, diminuisce il rischio di contagio dell’80%), è in grado di ridurre il tasso di infezione, persino se la mascherina indossata è di modesta qualità.
Sempre in giugno, Daniel P. Oran ed Eric J. Topol dello Scripps Research Translational Institute di La Jolla, California, in un lavoro pubblicato su Annals of Internal Medicine hanno ribadito che, stante la circolazione di infetti asintomatici, l’uso delle mascherine in tutte le occasioni di vicinanza fisica con altre persone è l’unico efficace freno all’epidemia, finché non sarà possibile testare tutta la popolazione o non vi sarà il vaccino.
Uno studio statunitense ha stimato che l’obbligo alla mascherina nei luoghi pubblici ha evitato, nel mese di maggio, 200.000 casi di Covid-19 in 15 stati USA e nella città di Washington (Lyu). Questi risultati non sono dissimili da quelli di un’indagine dell’Università della Virginia uscita in agosto sulle variabili legate alla mortalità da Covid in 200 nazioni (Leffler): gli incrementi settimanali della mortalità nelle zone dove l’uso della mascherina era imposto o raccomandato dalle autorità erano quattro volte più bassi che nelle altre regioni.
Sempre in agosto, dati provenienti da Boston hanno segnalato che l’infezione tra gli operatori sanitari è diminuita dopo che, in marzo, è stato esteso l’obbligo della mascherina a tutti i frequentatori degli ospedali municipali (Wang).
Un modello proposto in giugno da Stutt e collaboratori su Proceedings of the Royal Society a Mathematical Physical and Engineering Sciences indica nella combinazione di periodi di lockdown con l’uso generalizzato della mascherina (persino di quelle efficaci solo al 50% in entrata e in uscita) la miglior strategia di mitigazione della pandemia, di appiattimento della curva dei contagi e di prevenzione di ondate epidemiche subentranti.
Vi è quindi, ormai, consenso sui presìdi per fronteggiare la seconda ondata, che sono l’igiene delle mani, le mascherine, il distanziamento fisico, l’astensione dagli assembramenti; nessuna di queste misure è efficace da sola, ma lo è la loro combinazione e, secondo il direttore di Lancet Richard Horton, è compito della classe medica insistere sulla loro promozione, sia presso la popolazione sia presso il decisore politico.
L’importanza della carica virale
L’ipotesi che la gravità di una malattia virale sia proporzionale alla carica di inoculo del virus è ormai vecchia di un secolo; anche per quanto riguarda l’infezione da SARS-CoV-2 vi sono in tal senso molti indizi, tra cui si può citare la segnalazione italiana di giugno dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar di Valpolicella (Piubelli) di una minor necessità di terapia intensiva nei pazienti che avevano una più bassa carica virale, stimata dal numero di replicazioni necessarie per il test PCR.
La corrispondenza tra carica virale e gravità della malattia è il presupposto dell’ipotesi che si è affacciata in luglio sulle pagine del Journal of General Internal Medicine: la mascherina, finora portata per proteggere gli altri, potrebbe proteggere anche chi la indossa, attenuando l’assorbimento della carica virale e portando, così, in caso di contagio, allo sviluppo della malattia in forma meno grave (Gandhi).
Poiché un recente studio su Cell (Sekine) ha rilevato che la memoria immunitaria cellulo-mediata, più valida di quella anticorpale, si stabilisce anche dopo un’infezione asintomatica o pauci-sintomatica, il gruppo della Gandhi arriva a ipotizzare che, in attesa del vaccino, la mascherina potrebbe estendere la quota degli infetti pauci o asintomatici e diffondere l’immunità nella popolazione con un minor costo di casi mortali.
Un successivo editoriale di Monica Gandhi riprende l’importanza di attenuare il quadro clinico di una malattia così contagiosa e così difficile da curare e recupera il concetto di “variolazione”: in epoca pre-vaccino, la cute delle persone suscettibili al vaiolo veniva scarificata con il materiale di vescicole infette per causare un’infezione mite e la conseguente risposta immunitaria.
L’ipotesi che la carica virale assorbita possa essere attenuata dalla mascherina si fonda su studi riferiti ad altri virus respiratori, in particolare su quello pubblicato su PloSOne nel 2008 e condotto nell’ambito della preparazione a una potenziale influenza pandemica (van der Sande). Lo studio confrontava, nella popolazione generale, l’efficacia protettiva delle mascherine per uso medico e di quelle cosiddette “di comunità” (fatte in casa o industrialmente) e concludeva che tutti i tipi di mascherina riducono l’esposizione all’aerosol, ma con un’ampia variabilità individuale (per cause sia anatomiche sia comportamentali) e con un gradiente in discesa dalle FFP2, alle mascherine chirurgiche, a quella di comunità, così quantificato: le mascherine chirurgiche proteggevano il doppio di quelle in stoffa; le FFP2 25 volte di più di quelle chirurgiche e, quindi, 50 volte di più di quelle in stoffa. La differenza si notava meno nei bambini, probabilmente per la loro difficoltà di tenere la mascherina ben aderente al volto.
Le mascherine di comunità, la cui maggiore accettabilità da parte del pubblico aveva un peso non trascurabile nel computo complessivo dell’efficacia, pur non filtrando le particelle più piccole, offrivano una riduzione dalla trasmissione comunque sufficiente a ridurre il numero di riproduzione del virus influenzale sotto l’1 e così a interrompere la diffusione del contagio.
Che la mascherina possa limitare i contagi ed evitare i quadri più gravi della malattia è stato possibile dimostrarlo, al netto degli impedimenti degli esperimenti sull’essere umano, in due diversi esperimenti su furetti e criceti dorati (o siriani). Esemplari sani e infetti di questi ultimi sono stati messi dai ricercatori dell’Università di Hong Kong in gabbie adiacenti; una parte dei sani era separata dagli infetti con il materiale delle mascherine chirurgiche. In assenza della barriera, circa il 75% degli animali sani prendeva il virus SARS-CoV-2, mentre solo il 25 % di quelli protetti dal materiale delle mascherine veniva contagiato o, comunque, stando alle valutazioni anatomopatologiche, si ammalava meno gravemente rispetto agli animali privi della difesa (Chan).
L’assimilazione dell’uso della mascherina alla variolazione, fatta dalla Gandhi e dal suo collega GW Rutherford, ha innescato sull’ultimo numero del New England Journal of Medicine le reazioni sia di chi sottolinea il dubbio che la gravità della malattia dipenda dalla carica virale e la certezza invece che essa dipenda dallo stato anagrafico e sanitario del malato, sia di chi si preoccupa che le persone pensino di sostituire la vaccinazione con la deliberata esposizione al contagio, forti della protezione di una mascherina. Va infatti sempre ricordato che, al di là delle considerazioni tecniche, nella realtà quotidiana l’elemento chiave per la maggiore o minore efficacia delle misure di protezione è il comportamento umano, a proposito del quale uno studio dell’Università di Padova (Marchiori) ha rilevato il “paradosso del distanziamento sociale”: mentre le persone che non portavano la mascherina tendevano anche ad adottare strategie sociali pericolose, abbreviando la distanza con l’interlocutore, le persone che portavano la mascherina (anche di cotone) stavano più attente anche al distanziamento.
Anche una revisione della letteratura, condotta dal gruppo internazionale coordinato dall’analista di big data Jeremy Howard, ha confermato che, per lo più, le mascherine non costituiscono, per chi le indossa, un alibi per evitare le altre misure igieniche e di distanziamento ma, al contrario, un espediente per rafforzarle.
Quali sono i tipi di maschera disponibili?
Anche se elencate dall’OMS tra i dispositivi di protezione individuale (DPI) insieme ai respiratori facciali filtranti, guanti, occhiali, visiere e camici, le mascherine chirurgiche sono da classificare come dispositivi medici, proprio perché non proteggono l’individuo ma l’ambiente circostante dalle secrezioni di chi le indossa. Hanno una capacità filtrante fino al 95% dall’interno verso l’esterno, ma solo del 20% dall’esterno verso l’interno e non filtrano le particelle infettanti di piccolissime dimensioni. Il grado di protezione offerto e goduto aumenta con l’aderenza della mascherina al volto e con la distanza tra i soggetti che le indossano.
Le mascherine chirurgiche sono costituite da una sovrapposizione di 3 strati di “tessuto non tessuto” in polipropilene. Lo strato interno, di tipo spun bond, assorbe l’umidità espulsa con la respirazione tenendo asciutto il viso ed è ipoallergenico; lo strato intermedio, di tipo melt blown ad alta densità di filato con una disposizione irregolare delle fibre, assicura il potere filtrante; lo strato esterno, ancora spun bon, è sottoposto a un trattamento idrofobo contro liquidi e aerosol. Elastici o laccetti laterali e un ferretto modellabile sul naso fanno aderire la mascherina al volto.
La mascherina chirurgica è un dispositivo monouso e non si può disinfettare senza danneggiare il materiale; una volta tolta, deve essere immediatamente smaltita nella spazzatura. In caso di scarsità di ricambi, la si può lasciare all’aria aperta per almeno 12 ore (sarebbe più sicuro per 4 giorni) prima di riutilizzarla, sempre maneggiandola dagli elastici. L’efficacia sarà comunque ridotta e risulterà quindi ancora più importante mantenere la distanza di sicurezza.
I respiratori facciali (o mascherine filtranti o filtranti facciali) sono dispositivi di protezione individuale (DPI; in inglese PPE, personal protective equipment) delle vie respiratorie certificati FFP2 o superiori, secondo la normativa europea. La certificazione della capacità della mascherina facciale di filtrare le particelle sospese nell’aria compete a vari enti, che emettono classificazioni differenti: l’Unione europea (norma EN 149:2001) classifica le mascherine facciali filtranti in FFP 1, 2 o 3; il National Institute for Occupational Safety and Health (NIOSH) statunitense usa le sigle N 95, 99 e 100 e la Cina KN 90, 95 e 100.
Le mascherine filtranti aderiscono completamente al volto tramite lacci ed elastici e sono progettate per proteggere l’indossatore da aerosol finissimi che possono contenere sostanze inquinanti, batteri e anche virus (tuttavia, se si tratta di virus particolarmente letali, come quelli delle febbri emorragiche, è necessario isolare completamente l’operatore dall’aria ambientale fornendogli aria diversa con un autorespiratore). La versione semi-maschera (o a cartuccia) copre naso, bocca e mento, mentre la maschera completa (o a pieno facciale), che protegge anche gli occhi, è destinata agli ambienti ad alto rischio (terapie intensive). I filtranti sono, solitamente, indicati per soggetti a rischio e per chi, come il personale sanitario, deve frequentare luoghi affollati e potenzialmente contaminati, anche se le recenti linee guida dell’Infectious Diseases Society of America per la prevenzione in chi gestisce pazienti affetti da Covid-19, sulla base di studi su SARS e varie altre infezioni virali, raccomandano indifferentemente le mascherine chirurgiche e i filtranti facciali, se i contesti assistenziali non prevedono procedure a rischio di generazione di aerosol (ISS).
La mascherina filtrante è costituita da una sovrapposizione di strati in un numero variabile da quattro a sei, che dà una diversa capacità di filtro delle particelle con diametro di 2,5 micron: FFP2 >95%; FFP3 >98%. L’aggiunta a FFP2 e FFP3 di una valvola di espirazione non cambia la capacità filtrante, ma permette la fuoriuscita dell’aria calda e della condensa aumentando il comfort nei tempi lunghi, per cui è pensata per gli operatori sanitari in costante movimento e attività (pronto soccorso o ambulanze); non proteggono dal contagio le persone circostanti, ma solo chi le indossa. Gli strati sempre presenti in una mascherina filtrante sono:
- strato esterno in polipropilene, con un trattamento che lo rende idrorepellente
- strati filtranti (da 2 a 4) di polipropilene con tecnologia melt blown, che formano un reticolo di fibre ad alta densità; uno degli strati può contenere carbone attivo, che trattiene gran parte delle sostanze organiche
- strato filtrante elettrostatico
- strato interno morbido con azione adsorbente su espirato e saliva
La mascherina filtrante ha la durata di un ciclo di lavoro di 8-10 ore in ambiente contaminato. La sua eventuale riutilizzabilità è segnalata dall’azienda produttrice con la sigla R (Riutilizzabile), ma nella maggior parte dei casi è usa e getta (NR, Non Riutilizzabile). Nel primo caso, i possibili trattamenti di disinfezione (più empirici che scientifici) sono: esposizione ad alta temperatura (>60°) in ambiente umido (vapore del ferro da stiro), come indicato dal NIOSH; esposizione ai raggi ultravioletti (lampade UV); trattamento con soluzioni idroalcoliche al 60-70% nebulizzate con un erogatore in spray sulla superficie. Quest’ultimo è il trattamento più pratico e più sicuro per mantenere le proprietà meccaniche e la forma della maschera.
Il sito Salute. Gov parla (fonte ISS) anche delle mascherine di comunità, autorizzate dall’articolo 16 comma 2 del DL del 17 marzo 2020 con lo scopo di ridurre la circolazione del virus nella vita quotidiana. Non sono soggette a particolari certificazioni e quindi non sono considerate né dispositivi medici, né dispositivi di protezione individuale, ma una semplice “misura igienica”. Esse devono garantire un’adeguata barriera per naso e bocca, aderendo al viso senza rendere difficoltosa la respirazione, e devono essere realizzate multistrato in materiali non tossici né allergizzanti né infiammabili e resistere al lavaggio a 60 °C (quelle commerciali devono riportare sulla confezione il numero di lavaggi consentito senza che diminuisca la loro performance). Sono sconsigliabili in caso di sintomi tipo influenzale. Al Center for Nanoscale Materials di Lemont, Illinois, dove hanno fatto esperimenti sulla capacità di filtrazione di diversi materiali (Konda), sono giunti alla conclusione che l’efficienza filtrante delle ibridazioni basate sul cotone (cotone/seta, cotone/chiffon, cotone/flanella) è quasi doppia di quella dei tessuti singoli, probabilmente per la combinazione dell’effetto meccanico con quello elettrostatico.
Per quanto riguarda la visiera, le linee guida del Dipartimento della salute del governo australiano riconoscono che essa fornisce una barriera fisica a tutte le porte d’ingresso del virus (occhi, naso e bocca), impedisce di toccarsi la faccia e permette di essere visti in viso e, se indossata insieme a una mascherina chirurgica portata correttamente, aumenta la protezione di chi l’indossa e degli altri; se, però, s’indossa da sola non si protegge l’ambiente (e non si è protetti) dall’aerosol che può aggirarne i contorni. La posizione realistica del documento è che indossare una visiera sia meglio che portare una mascherina sotto il mento o lasciando fuori il naso o continuare ad aggiustarla toccandola sul lato esterno.
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fonte: SCIENZA IN RETE