Siamo un coordinamento di sedici Associazioni di persone con disabilità e loro familiari [se ne legga l’elenco nel box in calce, N.d.R.] e quotidianamente ascoltiamo la voce di persone con disabilità (giovani e meno giovani) che frequentano i servizi del Comune di Milano, che hanno bisogno del traporto, che lavorano, che si stanno formando per avere un futuro come cittadini.
«Siamo stanchi»: questa è la frase che raccogliamo, che ci sentiamo ripetere. L’epidemia di Covid-19, il lockdown e la chiusura dei servizi hanno messo in ginocchio le famiglie, hanno sconvolto la vita dei più fragili, «la vita dei nostri figli», ci dicono i genitori che incontriamo ogni giorno.
I mesi dell’emergenza sono passati, quelli della ripartenza pure, ora ci stiamo affacciando a un periodo difficile di contenimento della cosiddetta “seconda ondata”. Restano aperti i negozi, i ristoranti, i bar. Le scuole, pur tra mille difficoltà, hanno riaperto. Ma per noi, per le persone con disabilità e per le loro famiglie è cambiato poco. E quei pochi cambiamenti che abbiamo registrato non sono positivi.
I Centri Diurni (CDD, SFA e CSE Cad) hanno riaperto, ma solo alla riapertura si è “scoperto” che lo spazio a disposizione non è sufficiente ad accogliere contemporaneamente tutte le persone che li frequentavano prima del lockdown. E così la soluzione è la frequenza su turni o a giorni alterni, ma senza la possibilità di uscire dal centro per attività all’esterno.
Sono stati adottati regolamenti specifici per limitare il contagio: tutto “per la sicurezza” delle persone. Ingessando però ulteriormente il sistema.
Quello che non sapete, però, sono le conseguenze di questa nuova “organizzazione”.
Succede, ad esempio, che un ragazzo con disabilità multiple sia stato lasciato “momentaneamente” a casa perché non si reputa sicuro inserirlo nel centro («La relazione dice che, in considerazione del fatto che i ragazzi con autismo non indossano la mascherina, ma lo si sapeva già da maggio, non reputa sicuro inserire mio figlio – che indossa per tutto il tempo una mascherina FFP2 – e che quindi non autorizza il rientro e se ne starà “momentaneamente” a casa»).
Succede che un ragazzo che ha iniziato una sperimentazione per un progetto di vita indipendente sia rimasto senza trasporto, perché il pulmino può effettuare solo il tragitto tra l’abitazione e il centro: non sono ammessi cambiamenti («Il pulmino può solo accompagnarlo da casa sua al centro; questo mese di sperimentazione in una casa non prevede il cambio del percorso, neanche può salire con la sua compagna che fa il tragitto da sola verso lo stesso centro. Ho telefonato a tutti, non capiscono, non si può fare»).
Succede che ancora oggi, a mesi di distanza dalla fase acuta dell’emergenza, quando una persona con disabilità non può frequentare il CDD [Centro Diurno Disabili, N.d.R.], il massimo dell’assistenza che riceve sia la breve visita di un assistente e una passeggiata attorno all’isolato. Mentre coloro che hanno terminano la scuola si trovano davanti un muro, perché nei servizi non c’è posto. Così, queste persone vanno ad aggiungersi a quanti erano in lista d’attesa e restano in un limbo («Ho chiamato diversi enti ma tutti mi rispondono che non hanno modo di accogliere nuovi ingressi e che già ci sono le liste di attesa, anche pagando di tasca mia non possono»).
A sette mesi dallo scoppio dell’emergenza, le famiglie delle persone con disabilità devono sottostare a un sistema fatto di regole confuse e senza un disegno progettuale di medio-lungo periodo basato sul concetto “prendere o lasciare”. Il trauma subìto e l’incertezza generata dalla mancanza di informazioni sono stati così forti che molte famiglie non vogliono fare uscire i propri figli di casa per il timore del contagio. Altre, esasperate da una difficile convivenza, chiedono con forza l’inserimento del proprio figlio in una comunità. Il Covid ha definitivamente mandato in crisi un modello di assistenza già fragile e superato.
A fronte di questa situazione, oggi dobbiamo dire che abbiamo perso una sfida importante. Ma non possiamo dichiarare la nostra resa, perché in questi sette mesi abbiamo visto come la città di Milano abbia saputo trovare risorse economiche e progettuali per dare risposte ai problemi emersi in città (dalle piste ciclabili al bando di luglio per i pre-fabbricati nelle scuole, ai permessi “veloci” per i dehors di bar e ristoranti, ai fondi per le scuole dell’infanzia) e come anche di recente, con Fare Milano, si interroga su temi generali quali l’inclusione e l’equità sociale.
LEDHA Milano [Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, N.d.R.] vuole fare la sua parte.
Ci aspettiamo che Milano, di cui siamo parte integrante, ci ascolti e collabori con noi per progettare e costruire un approccio differente alla disabilità, che sia capace di prendere il progetto sulla persona (articolo 14 della Legge 328/00) come punto di riferimento, ragionando per budget individuale, perché la persona con disabilità non è la somma di rette, titoli sociali e supporti.
Per farlo, però, occorre il coraggio di ammettere che non si può pensare di ripristinare lo “status quo ante bellum”, perché il Covid non ha creato una nuova emergenza: ha fatto emergere con cruda evidenza le criticità e le debolezze di un sistema che già indicavamo come inadeguato.
Per sette mesi abbiamo assistito impotenti al tentativo, da parte della macchina comunale, di far funzionare tutto come prima, preoccupandosi di riaprire i servizi e non di aprire a una possibile vita reale quotidiana le persone con disabilità.
Servono maggiori risorse, soprattutto occorrono visione e la capacità di progettare un sistema nuovo, in grado di innovare e di dare risposte adeguate alle esigenze delle persone con disabilità. Le persone con disabilità e le loro famiglie sono disposte a mettersi in gioco per trovare soluzioni creative, contribuire, investire in tempo e risorse per progettare nuovi servizi che non possono essere più luoghi di erogazione di prestazioni.
La nostra proposta (che abbiamo immaginato come una Road Map della Milano che vorremmo) si concretizza nella creazione di una task force che unisca figure tecniche, famiglie, persone con disabilità esperti, coordinati da un disability manager cittadino, in cui tutte le politiche per la disabilità del Comune di Milano possano confluire abbattendo i rigidi confini tra Assessorati, orientando la riflessione e l’elaborazione progettuale verso una città che sia per tutti: accessibile, inclusiva e garante dei diritti, anche con questa pandemia.
Vogliamo poter fare tutto questo, vogliamo osare, ma non possiamo farlo da soli e non possiamo aspettare. Perché la vita delle persone con disabilità non può essere messa in pausa… trascorre ogni giorno.
Ringraziamo per la segnalazione l’Associazione L’abilità.