L’attività del medico, in qualunque settore si svolga, non può essere asettica ma calibrata sulle persone, le quali per loro natura sono diverse per genere, condizioni socio economiche, culturali, etnico-geografiche. Il medico deve acquisire sensibilità su questi aspetti per poter fornire la migliore assistenza possibile. “Credevo di vedere le famose patologie ‘dei migranti’ ma alla fine ho capito che il rapporto con questo tipo di pazienti deve essere molto incentrato sulla persona e meno sulla patologia”. Il progetto “Esperienze in Cure Primarie” a Ferrara.
Su questo blog ci si è spesso confrontati sulla formazione medica, e in particolare su come tenda a essere sbilanciata verso l’ospedale e le diverse specialistiche, lasciando uno spazio marginale al ruolo del medico in contesti territoriali (specialistica territoriale o MMG, per esempio).[1,2] Quest’ultima parte della formazione, quando presente, è confinata a brevi tirocini presso i MMG, effettuati negli ultimi anni di formazione o nel mese di abilitazione post-laurea. Partendo da queste premesse, come sede locale del SISM di Ferrara abbiamo deciso di organizzare e proporre agli studenti della Scuola di Medicina e Chirurgia un’esperienza teorico-pratica, con l’obiettivo di avvicinarli alla pratica della professione sul territorio. Questo progetto, denominato Esperienze in Cure Primarie, è giunto quest’anno alla sua seconda edizione e si è avvalso della collaborazione della Caritas di Ferrara e delle Officine Cooperative Camelot, una cooperativa sociale che si occupa di accoglienza e assistenza ai richiedenti asilo e ai rifugiati nell’ambito del progetto SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).
Le radici del progetto: da dove siamo partiti
Prendendo parte nel 2015 al Laboratorio di Mondialità, evento organizzato ogni anno dal SISM, ci siamo avvicinati al paradigma della Salute Globale, e per la prima volta nel nostro percorso accademico abbiamo sentito parlare di determinanti e di disuguaglianze in salute.
Ciò che ci era rimasto in testa e che ancora frullava sei mesi dopo essere tornati dal Laboratorio, era la conferenza di Alma Ata (1978)[3], dove si è di fatto definito il ruolo della Primary Health Care (PHC) nel raggiungimento della Salute, così come intesa dalla definizione Oms (1946). I princìpi condivisi ad Alma Ata, poi ribaditi con forza nella Carta di Ottawa (1986)[4], evidenziavano la necessità di un cambio di paradigma su due fronti: quello assistenziale e quello politico. Per quanto riguarda il primo fronte, si auspicava il passaggio da un modello strettamente biomedico ad un modello biopsicosociale, che cercasse di tenere insieme tutte le dimensioni della salute. Per il secondo, si premeva per un orientamento dell’organizzazione dei servizi sanitari verso i valori di equità sociale nella salute, con una particolare attenzione alla centralità della persona nell’assistenza e alla partecipazione della comunità nelle decisioni inerenti la salute collettiva.
Tuttavia, nel momento in cui ci trovavamo a discutere sul concetto di PHC, la sua totale assenza dai nostri canali di formazione curricolare (non sempre a livello teorico, ma sicuramente a livello pratico) ci metteva di fronte all’evidenza che questo approccio non fa parte del bagaglio di conoscenze standard di un laureando in Medicina. Questa carenza formativa ha però rappresentato una delle spinte principali all’ideazione e realizzazione di un percorso complementare che cercasse di affrontare criticamente la questione.
Costruendo il progetto, volevamo che i partecipanti comprendessero da dove deriva il concetto di Cure Primarie e lo vivessero in prima persona attraverso un’esperienza di affiancamento in ambulatorio. Abbiamo pertanto deciso di lavorare su due collaborazioni parallele: da un lato abbiamo coinvolto i Medici di Medicina Generale, dall’altro abbiamo chiesto e ottenuto la disponibilità dell’ambulatorio CaritasFe per richiedenti asilo e indigenti e della Cooperativa Sociale Camelot, che si occupa ormai da tempo di ciò che riguarda il sistema territoriale SPRAR, sia a Ferrara che a Bologna. Volevamo quindi offrire la possibilità di vivere un’esperienza pratica sul territorio in due ambiti che ritenevamo di grande interesse per la formazione: la medicina generale e la medicina delle migrazioni. Per quanto riguarda i MMG abbiamo cercato di organizzare l’attività di tirocinio in vari studi tramite la collaborazione della SIMG (Società Italiana di Medicina Generale); per ciò che concerne l’attività con i migranti si è deciso, anche in virtù della disponibilità dell’ambulatorio della rete nazionale Caritas e degli operatori della Cooperativa Camelot, di dividere l’esperienza in una parte più prettamente sanitaria che prevedesse la frequenza presso l’ambulatorio, e una parte più “olistica” costituita dalla frequenza in cooperativa, affiancando l’operatore nel suo lavoro quotidiano, con l’obiettivo di mantenere uno sguardo a 360 gradi sulla salute del migrante.
I frutti del progetto: valutazioni e potenziale trasformativo del progetto
Come SISM riteniamo fondamentale valutare in maniera condivisa e partecipata tutti i progetti realizzati: ci rendiamo conto dell’importanza di confrontarci con il risultato di quello che avevamo pensato, sia per poter dire quanti degli obiettivi fissati siano stati effettivamente raggiunti, sia per cercare di migliorare l’esperienza nei suoi punti critici, ed eventualmente riproporla. Abbiamo quindi coinvolto nel processo di valutazione tanto i partecipanti quanto tutte le persone che ci hanno permesso di realizzare il progetto. Per quanto riguarda la metodologia abbiamo ritenuto, visti anche i numeri contenuti, di proporre una valutazione qualitativa per mezzo di questionario a domande aperte, diverso per partecipanti e realtà ospitanti. La risposta, in termini di questionari compilati è stata del 50% sia per i partecipanti (4 su 8) che per le realtà ospitanti (1 su 2).
Agli studenti partecipanti all’esperienza è stato chiesto quali fossero le aspettative sul percorso, quello che ritengono di aver imparato, a chi avrebbero voluto consigliare un’esperienza del genere e cosa avrebbero cambiato nella proposta formativa.
Da alcune risposte emerge una disponibilità a mettersi in gioco già a monte, che suggerisce una sorta di bìas di selezione positivo: gli studenti che hanno aderito al progetto probabilmente avevano già una predisposizione verso questo tipo di esperienza, e verosimilmente avevano già messo in discussione alcune pratiche della loro formazione. Questo può aver contribuito al fatto che l’esperienza col SISM abbia avuto per loro un potere trasformativo maggiore, contribuendo anche a smontare alcuni pregiudizi presenti nella professione. Scrive infatti un partecipante: “Credevo di vedere le famose patologie ‘dei migranti’ ma alla fine ho capito che il rapporto con questo tipo di pazienti deve essere molto incentrato sulla persona e meno sulla patologia”. Questa evoluzione appare ancor più positiva se la si mette in relazione con i differenti background personali e motivazionali dei partecipanti: avendo raccolto le motivation letter prima della parte pratica, abbiamo potuto constatare come ci fosse un’idea tutto sommato “grezza” e a tratti approssimativa di quale fosse il significato di un’esperienza di medicina sul territorio, in particolare con soggetti portatori di bisogni ed esigenze particolari. Inoltre questo potere trasformativo dell’esperienza può essere ascritto, in parte, anche al valore aggiunto di una coscienza trasmessa da chi seguiva i partecipanti durante l’attività ambulatoriale. È stato infatti osservato che “l’attività del medico, in qualunque settore si svolga, non può essere asettica ma calibrata sulle persone, le quali per loro natura sono diverse per genere, condizioni socio economiche, culturali, etnico-geografiche. Il medico deve acquisire sensibilità su questi aspetti per poter fornire la migliore assistenza possibile”.
Riguardo l’affiancamento in ambulatorio, in più risposte si testimonia un buon grado di partecipazione attiva: “Al centro Caritas […] una volta illustratomi come funziona l’ambulatorio, ero anche abbastanza autonoma: ovviamente dipendeva molto dal medico presente, ma mi hanno fatto visitare, parlare con i pazienti, far diagnosi e prescrivere la terapia”. È emerso anche come sia stata apprezzata l’unicità di questa esperienza nel percorso formativo accademico, oltre alla valorizzazione del protagonismo degli studenti: “[…] è stata l’unica esperienza di medicina sul territorio e sicuramente quella tra le esperienze formative a cui ho contribuito di più”. La questione del protagonismo nella formazione appare una componente molto apprezzata: grazie anche al tanto tempo avuto a disposizione durante le visite, dovuto al diverso grado di affluenza dei pazienti in una struttura di questo tipo rispetto, ad esempio, a un ambulatorio di MMG, molte sono le testimonianze positive in tal senso che non solo dimostrano l’essere andati oltre le abilità acquisite accademicamente (“ho imparato tanto a parlare veramente con i pazienti senza fare le solite anamnesi meccaniche che ci insegnano all’università”), ma anche l’essere entrati in contatto diretto con qualcosa di cui avevano solo sentito parlare (“mi sono trovata faccia a faccia con una realtà di cui avevo sentito molto parlare e raccontare ma con cui non avevo mai avuto modo di interagire direttamente”).
L’esperienza è risultata nel complesso positiva anche dal punto di vista dell’ambulatorio che ha ospitato gli studenti, sia in termini di formazione, sia come contributo alla ‘coscientizzazione’ [5] dei futuri medici rispetto a un fenomeno complesso come quello migratorio. Scrive infatti il dott. Zanotti, uno dei medici volontari dell’ambulatorio Caritas: “Lo scopo principale, dal mio punto di vista, era di fornire l’opportunità di avere esperienza diretta di persone in grave indigenza e delle persone che vengono in Italia come migranti. Troppo spesso questo fenomeno, così importante nella nostra società, è visto tramite mezzi di informazione fortemente influenzati da preconcetti, del tipo ‘i migranti ci portano malattie’ oppure ‘il fenomeno migratorio stravolge la nostra società’.
Per quanto riguarda il tirocinio nella cooperativa, nonostante sia stata apprezzata da tutti i partecipanti il suo inserimento nel percorso formativo, dai questionari esaminati sono emerse numerose criticità e alcuni aspetti su cui lavorare, soprattutto dal punto di vista organizzativo. Essendo la prima esperienza, almeno per quanto concerne noi del SISM, di inserimento di studenti di medicina in un contesto che si discosta molto dal percorso formativo standard, ci aspettavamo questo tipo di difficoltà. Quello su cui abbiamo riflettuto e su cui stiamo cercando di lavorare è la mancanza di un ruolo definito, di una dimensione che renda lo studente parte attiva in questo contesto.
Questa riflessione sul ruolo dello studente di Medicina (o di qualsiasi professione sanitaria) è centrale nell’approccio che abbiamo, come SISM, al tema della formazione. Un’esperienza come quella di Ferrara, pur nei suoi numeri contenuti, ci suggerisce che investire su un percorso formativo che sappia coniugare il sapere tecnico, che rimane imprescindibile nella costruzione di un professionista preparato, alla crescita personale che si ha quando ci si dà la possibilità di cogliere le opportunità che si presentano anche al di fuori del contesto accademico, contribuisce alla creazione di un professionista completo. Nell’articolo sulle “Palestre di Salute Globale” pubblicato qualche tempo fa su questo blog[6] si parlava dell’importanza di concedere spazio all’apprendimento in contesti territoriali significativi, come quelli a cui ci siamo avvicinati a Ferrara, con il fine di “elaborare una proposta di formazione che tenda a introdurre un nuovo modo di pensare e agire la salute, che possa generare cambiamenti sia nei futuri professionisti sanitari che nell’intera società”.
Ciò che volevamo mettere in questo progetto non erano altro che le nostre idee, la nostra voglia di mettere in pratica molte di quelle cose interiorizzate nei momenti associativi, con l’obiettivo di portare prima o poi dentro l’università ciò che noi consideriamo così imprescindibile per la nostra formazione
Fonte: http://www.saluteinternazionale.info/2018/02/gli-studenti-di-medicina-e-la-salute-dei-migranti/