Quando ho sentito squillare il telefono del mio cellulare mi trovavo in un supermercato, intento a fare la spesa: Gabriele, mio figlio, autistico di 39 anni che vive in una comunità residenziale di Torino, sarebbe tornato a casa per il fine settimana ed io, vivendo da solo, avevo pensato bene di muovermi in anticipo, al fine di organizzare al meglio il suo rientro, comprandogli ciò che mi aveva chiesto e, perché no, provando a scovare tra le corsie qualche sorpresa che potesse renderlo felice.
Era l’immediata vigilia di Ferragosto quando, al termine di una lunga battaglia, la Regione Piemonte aveva finalmente emanato un’Ordinanza che metteva la parola fine all’equivoco RSD = RSA [Residenza Sanitaria Disabili = Residenza Sanitaria Anziani, N.d.R.] e con esso alla vergognosa politica di segregazione dei disabili autistici, ancor più incomprensibile vista la tolleranza praticata nei confronti di una movida che già da settimane imperversava in città.
Ricordo ancora i passi incerti che Gabriele aveva mosso al momento di tornare a casa: spaesato, timoroso di toccare ogni cosa, distrutto psicologicamente, impacciato nell’eloquio, incapace di credere di essere temporaneamente fuori da un contesto, la comunità, rimasto, per cinque interminabili mesi, blindato e inaccessibile a chiunque, come se all’interno vivessero appestati anziché giovani adulti in carne ed ossa.
Si può solo immaginare quanto grande sia stata la mia fatica nel cercare di rassicurarlo e di mitigarne l’ansia: pareva aver perso la fiducia in me, sembrava volermi accusare di averlo ingiustamente abbandonato. Non era vero. Dio solo sa quanto non era vero!
Gabriele non poteva sapere delle energie che avevo profuso per liberarlo da quell’inaccettabile, disumana condizione. Non sapeva dei mei articoli su «la Repubblica» e «la Stampa», delle mie interviste al TG3 Regionale e a quello Nazionale, dell’appello che avevo rivolto dagli schermi di TV2000, dell’intervento su La vita in diretta di Raiuno… E di tanto altro… Niente poteva sapere di tutto quanto, insomma, avevo costruito per smuovere l’apatia dei vertici della Regione, a partire dal suo Presidente e dall’Assessore alla Sanità, che fino a quel momento mai erano sembrati consapevoli di quanto complessa e difficile fosse la realtà dell’autismo e di quanto le sue specificità rendessero sciagurata e nociva la permanenza di illogiche misure restrittive camuffate sotto la dicitura «riparo dal rischio Covid».
La politica, lo sanno bene tanti familiari con figli autistici, privilegia e rivolge le sue attenzioni alle categorie che contano, non certo a quelle più fragili e indifese.
I primi approcci con Gabriele furono estremamente difficili, non riuscivo a smuovere la sfiducia di mio figlio. È servito del tempo prima di vederlo abbozzare un sorriso, prima che mi abbracciasse, prima che accettasse di essere abbracciato, prima di convincerlo che non ci sarebbe più stato nessun colpo di mano consumato sulla sua pelle. Quella pelle che recava ancora vive le cicatrici di un passato recente, segnato da ennesime rinunce e sofferenze.
Dopo una decina di giorni ho ripreso le bici dalla cantina e gli ho proposto di fare un giro. È salito sopra. Appena poche pedalate, ha sbandato, ma non è successo nulla: l’ho sostenuto, sapevo che sarebbe potuto succedere perché non coordinava più correttamente i movimenti… Cinque mesi trascorsi tra un divano e un letto lasciano anche queste tracce.
Gli ho chiesto se preferiva tornare a casa, mi ha fatto cenno di no. «Ce la faccio», erano state le sue parole. È quanto è successo. Quella volta, era domenica, abbiamo pedalato mezz’ora; la volta successiva, sabato, quaranta minuti, poi – dopo un’altra settimana – un’ora. Gabriele tornava pian piano a riassaporare una normalità che gli era stata rubata.
Ma ora, quel maledetto pomeriggio di ieri, 13 ottobre, dall’altra parte del telefono il coordinatore della comunità mi avvertiva che con effetto immediato era stata decisa l’interruzione dei rientri di mio figlio. Decisa da chi? Dalla Direzione Sanitaria della struttura, naturalmente…
In questo modo si poneva bruscamente fine a una preziosa esperienza di recupero psicologico e fisico, senza tenere conto dei benefìci che Gabriele stava pian piano conseguendo. Mai la Direzione Sanitaria della comunità, o altri referenti, hanno ritenuto di avere un confronto con me sull’andamento della ripresa in atto, salvo un generico scambio di informazioni, affidato a poche righe, con il coordinatore.
“Decisione unilaterale”, dicevo, assunta senza essere stata condivisa con la famiglia, senza attendere l’Ordinanza Regionale che sarebbe seguita all’emanazione di un Decreto del Presidente del Consiglio che per altro nulla innovava rispetto a quello di agosto e anzi, all’articolo 10, richiamava all’applicazione di quel patto territoriale che prevede il graduale ritorno, per gli ospiti delle strutture, alla socialità e alla ripresa delle attività. C’è qualcosa di più sociale che tornare a casa dai propri affetti?
La Direzione Sanitaria si è arbitrariamente appellata alla “discrezionalità”, formula più che ambigua, utilizzata per fare terra bruciata intorno a persone evidentemente ritenute, perché autistiche, incapaci di provare stati d’animo, desideri, sentimenti.
Uomini da trattare alla stregua di malati mentali ai quali non va assicurato un supporto psicologico, ma piuttosto un robusto trattamento farmacologico che li annienti giorno dopo giorno.
La pandemia diventa un coperchio con cui coprire tutto. Siamo davanti al monopolio dei partner privati, favorito da una delega assurda e illimitata. Mancano, o sono molto carenti, i controlli sul rispetto degli standard qualitativi; non esiste un protocollo medico né uno educativo di cui siano precisati obiettivi e contenuti. Non esiste una vera presa in carico. Il progetto individualizzato è una formula buona, per i convegni ma nella realtà è solo una scatola vuota. Si naviga a vista ed è già tanto se si sa cosa fare giorno per giorno. Altro che orizzonte strategico, altro che “progetto di vita”, esiste solo il “progetto di adesso”!
Non sento il referente alla salute mentale di mio figlio da tantissimo tempo, probabilmente da prima del dicembre 2019. Non credo che in questi mesi di pandemia abbia mai pensato di recarsi in comunità per monitorarne le condizioni né credo che sia mai stato aggiornato.
Ho perso le tracce del responsabile regionale dell’Autismo Adulti, nonché referente medico di Gabriele, del quale mai ho letto un’espressione di solidarietà nei miei confronti di padre o una timida presa di distanza dalle incertezze e dalle ambiguità delle Istituzioni e dei responsabili della struttura: eppure chi più di queste persone, che vantano un credito autorevole nei palazzi che contano, dovrebbe fare aprire gli occhi alle Istituzioni, denunciando il sensibile peggioramento che gli autistici subiscono a causa di inconcepibili misure restrittive?
Il rapporto con le famiglie è precario, non continuativo, e non di rado alla richiesta di trasparenza e di confronto si risponde con la minaccia di dimissioni, come se gli ospiti di una struttura non fossero importanti in quanto persone, ma perché portatori di rette mensili da riscuotere. Non ci si fa scrupolo, stante la disparità di mezzi, di utilizzare come arma di dissuasione l’Ufficio Legale per zittire quei familiari che hanno il torto di tutelare le ragioni e i diritti dei loro figli. Si vorrebbe che la regola fosse «non disturbare il manovratore». Tutto questo è molto brutto, oserei dire squallido.
Io credo che sia un preciso dovere della politica quello di tutelare da ogni arbitrio le fasce più deboli della popolazione. È tempo che i vertici delle Istituzioni si assumano le loro responsabilità, a cominciare dall’eliminazione immediata di ogni delega, pur se mascherata da un anacronistico richiamo al potere discrezionale conferito alle Direzioni Sanitare, perché troppe volte essa sfocia nell’arbitrio e nell’abuso. La Regione Piemonte non diventi complice di queste scelte sciagurate. Assuma, insieme ad ASL e Comune, la decisione di intervenire quando è palese che si calpestano i diritti e la dignità delle persone. Le tuteli. Le difenda da ogni prevaricazione.
Come non riconoscere l’arbitrarietà di una decisione che non tiene in alcun conto il valore che possono avere soluzioni, come quella che ho proposto, diverse da un’istituzionalizzazione segregante e offensiva? Per scongiurare odiose fughe in avanti riproponga, perciò, la validità di un patto, che ha funzionato ottimamente, sottoscritto tra la struttura e i familiari, attraverso cui questi ultimi assumono l’impegno di tutelare la salute e il benessere dei loro cari in occasione dei rientri per il fine settimana.
Ho 71 anni, sono alquanto malandato, da poco mi è stato diagnosticato un problema di salute che rende molto dubbiosi gli specialisti che mi hanno visitato. Da qui una serie di esami e di visite alle quali mi sto sottoponendo.
Gabriele ha solo me su cui contare, poiché la madre è stata colpita due anni fa da un grave problema di salute, che l’ha costretta a trasferirsi nel Lazio. Non so quanto potrò resistere, spero di fare in tempo a denunciare in tutte le sedi i responsabili di queste scelte scellerate che violano i diritti di mio figlio e ne calpestano la dignità di essere umano. Gabriele non merita questo né lo merita suo padre. Intervengano le Istituzioni e i Servizi per cancellare immediatamente questo torto.