Sindacalista in Argentina durante gli anni della dittatura (1976-1983), salvò centinaia di vite.
Filippo Di Benedetto (1922-2001) è uno di quegli italiani che tutti gli italiani dovrebbero conoscere. Ma chissà perché, forse perché era comunista, forse perché era un sindacalista, lo conoscono in pochi. Ora il suo Comune di origine (del quale fu anche sindaco, dal 1947 al 1949), Saracena, in Calabria, gli ha dedicato una via. È una splendida notizia. Proviamo ad approfondirla con la storia che c’è dietro. Proviamo a raccontare una storia.
Questa storia inizia a Buenos Aires molti anni fa. È il 24 marzo del 1976. In Argentina i militari prendono il potere. Il quinto colpo di Stato nel giro di pochi decenni. Ma sarà diverso da tutti gli altri. La repressione dei militari sarà terribile. Nessuno, sulle prime, si accorge di nulla. Massacrano gli oppositori di nascosto. Inventano la desaparición: più di trentamila persone scomparse nel nulla, mai tornate. Un’intera generazione falcidiata.
In una città trasformata in incubo, lacerata dalle incursioni notturne dei paramilitari che strappano dai loro letti donne e uomini destinati a sparire per sempre, tre italiani iniziano a collaborare per salvare più vite possibile, senza l’appoggio di nessuno, esposti a ogni genere di ritorsione.
Uno di loro è il giovane console Enrico Calamai, che aiuterà centinaia di argentini di origine italiana a espatriare in Italia.
Poi c’è il giornalista Giangiacomo Foà, il primo a denunciare sulle pagine del Corriere della Sera quanto sta avvenendo.
Il terzo uomo è il protagonista della nostra storia. Il suo nome è Filippo Di Benedetto: un calabrese emigrato in Argentina da oltre vent’anni, presidente dell’Inca Cgil di Buenos Aires e della Filef, la Federazione lavoratori emigranti e famiglie. Ha fatto molti lavori. È stato muratore, operaio, falegname. Poi è diventato un esperto in pensioni e assistenza ai suoi compagni e conterranei. Ma ora, dinanzi alla ferocia della dittatura, non eroicamente ma col senso di responsabilità di una persona che conosce la differenza tra il bene e il male, sceglie di affrontare i militari. Lo farà a modo suo, senza alcuna protezione, mettendo a rischio la vita.
Si trasforma in un mago di espatri. Aiuta Calamai in moltissime occasioni, sebbene privo delle tutele di cui il coraggioso diplomatico può comunque godere. “Numerosi casi – ricorda lo stesso Calamai – mi vennero segnalati dal responsabile del patronato sindacale Inca-Cgil, Filippo Di Benedetto, che si occupava di pratiche pensionistiche e conosceva a fondo la nostra comunità. Lavorammo insieme per assicurare ai perseguitati una via di fuga verso l’Italia, procurando loro documenti e aiutandoli a eludere i controlli di frontiera”.
Calamai e Di Benedetto mettono in piedi una vera e propria rete di salvataggio: “Insieme – ricorda Edda Cinarelli – hanno nascosto nella sede del Consolato generale, in M.T. De Alvear, o nelle loro case personali, centinaia di persone, poi gli facevano i documenti e le facevano partire”.
Nella sua autobiografia (Niente asilo politico) Calamai ricorda con commozione l’aiuto ricevuto da Di Benedetto: “Aveva una tosse infernale, una giacca logora, ma sapeva da quale impiegato delle Poste andare per spedire un telegramma senza essere denunciato”.
Quando il console viene richiamato in Italia, nel 1977, perché troppo solerte nell’aiutare le vittime della dittatura, Di Benedetto rimane solo (anche Foà è stato allontanato da Buenos Aires). Ma non smette di impegnarsi.
Come confesserà un giorno a Calamai, sulla sua scelta pesò la tradizione familiare. Figlio di un antifascista, Di Benedetto nacque il 17 aprile del 1922 a Saracena, in Calabria. Subì le persecuzioni dei fascisti (fu arrestato e torturato nel 1943), il che lo spingerà a immedesimarsi nel martirio dei giovani sequestrati dalla dittatura argentina. Subito dopo la guerra fondò la prima sezione comunista del Pollino e fu eletto sindaco di Saracena, il primo cittadino comunista nella storia del paese. Ma senza lavoro, e discriminato perché di sinistra, Filippo fu costretto a emigrare. Nel 1952 arriva a Buenos Aires, dove prosegue l’attività politica. Milita nel Partito comunista e s’impegna socialmente. Alla fine degli anni Sessanta entra in contatto con Giuliano Pajetta, responsabile emigrazione del Pci, e assume la guida dell’Inca di Buenos Aires. Sarà anche uno dei cinque membri del Consultorio per gli immigrati italiani in Argentina: lo stesso organismo del quale, in quegli anni terribili, fece parte Luigi Pallaro (con tutt’altra missione politica).
Di Benedetto è morto in povertà nel settembre del 2001. Un suo amico lo ha ricordato con queste parole: “Il tuo ruolo come presidente della Filef e del Patronato Inca, nonché segretario del Pci in Argentina, ti ha visto in trincea a lottare con il fervore e l’entusiasmo che ti caratterizzava. Non hai mai esitato a ricorrere al coraggio di esporti. Non sono un segreto i tuoi contributi durante la dittatura in Argentina. Per questo hai pagato in prima persona, anche con il carcere. Erano i tempi di Ongania e poi di Videla e Galtieri. Con molta discrezione e in qualche maniera, assieme ad altri, hai dato il tuo contributo per un passaporto per la libertà”.
Chi ha conosciuto personalmente Di Benedetto lo ricorda come un uomo “alto, magro, schivo”, che “teneva a passare inosservato” e non chiedeva “riconoscimenti”. È indubbiamente il ritratto di un giusto che non pretende di essere ricordato e onorato, e proprio per questo dovrebbe essere ricordato e onorato. Pochi anni fa (2016) la Rai perse un’occasione per farlo, non raccontando la vicenda di Di Benedetto nella fiction Tango per la libertà, adattamento televisivo liberamente ispirato all’autobiografia di Calamai.
Questa storia aspetta ancora qualcuno che la racconti. La storia di un sindacalista che salvò molte vite.
fonte: COLLETTIVA