Questa domanda rimbalza da tempo in attesa di risposte credibili. Il welfare tradizionale durante la pandemia ha salvato tante vite, garantito pensioni, sussidi, misure economiche impensabili in altri tempi. Ma per il futuro non basta e serve altro. Il welfare attuale nasce dal passaggio da carità a giustizia, oggi la solidarietà continua a sollecitarlo chiedendo giustizia «più giusta», soprattutto per i più deboli. Le carenze del nostro welfare sono evidenti. Le abbiamo stigmatizzate nei rapporti sulla lotta alla povertà e con altre iniziative culturali e sperimentali, misurando i deficit di capacità di risultato, di efficacia, di sostenibilità. Abbiamo denunciato gli eccessi di assistenzialismo e di scambio politico tra assistenza e consenso. Il risultato sociale è in perdita, alimenta una crescente sfiducia sulle risposte, non reggeranno la domanda sociale, giustificando anche in questo modo un welfare residuale, in evidente contraddizione con le previsioni costituzionali.
L’insufficiente giustizia è sotto gli occhi di tutti, gli ultimi della fila non vengono considerati e sono la misura di una recessione di welfare fatta di gestioni burocratizzate, incapaci di bilanciare la necessità con la doverosità dell’aiutare. Nella pandemia il meglio e il peggio sono emersi con offerte diseguali, con risposte istituzionalizzanti, mentre quelle territoriali e domiciliari sono rimaste in ombra. È un welfare squilibrato che confonde le prestazioni con le soluzioni, i diritti con i bisogni da tutelare. È fonte di giustizia ingiusta perché disuguale, negando il necessario ai più deboli e alle nuove generazioni.
Le differenze positive, durante l’emergenza, le hanno fatte le persone, accettando il confinamento perché la salute di tutti dipende dalle responsabilità di ciascuno. Molti operatori hanno rischiato la vita, senza nascondersi dietro le procedure, riscoprendo la clinica necessaria per salvare, curare, riabilitare, ridare vita e speranza.
Le differenze negative si sono viste nella confusione organizzativa fatta di prestazioni emergenziali non sempre utili. I grandi contenitori non hanno retto l’onda d’urto, non sono stati capaci di contrastare le morti in solitudine negli ospedali e nelle residenze. Si è visto che soltanto l’azione umana può fare la differenza curando e prendendosi cura. È stata un antidoto al delirio organizzativo che agisce con regole che proteggono dalla responsabilità di essere chiamati a rispondere del proprio operato. Il nostro welfare ha assecondato nel tempo questa deriva etica ed è diventato pericoloso. Chi pensa di innovarlo con nuove strutture e tecnologie non si rende conto che sono mezzi «a tempo determinato», tecnicamente «decerebrati» cioè destinati ad essere utilizzati e sostituiti con soluzioni migliori. Se sono soltanto amministrati non possono garantire risultati umani, sociali ed economici.
L’ospedale del futuro cosa potrà fare senza le cure domiciliari del futuro? Sarà destinato a una rapida obsolescenza, perché l’innovazione autentica non dipende dai contenitori, ma dalle capacità necessarie per fare la differenza. Nell’emergenza Covid-19 è stato naturale capirlo perché i risultati raggiunti non sono spiegabili con la modernità delle strutture, ma con l’intensità e la qualità delle capacità messe in gioco.
L’innovazione non potrà infatti accontentarsi di novità materiali, strutturali, procedurali, serve di più con strategie in grado di ottimizzare il «concorso al risultato», cioè le relazioni generative tra chi aiuta e chi è aiutato negli spazi clinici e sociali a disposizione.
Numerose verifiche descrivono questa possibilità e modificano l’idea di welfare del futuro, che dovrà contare su soluzioni umane, fatte di reciprocità, inclusività, sostenibilità, valorizzando il contributo di tutti anche dei più deboli. Dipenderanno dalla possibilità di affrontare i problemi oltre l’offerta standardizzata, con tutta l’umanizzazione necessaria. Nelle soluzioni migliori i determinanti sono fatti di pratiche coerenti con la clinica dell’arco terapeutico, in continuità di responsabilità, oltre le burocrazie dell’attuale continuità assistenziale, con verifiche sistematiche di esito e di costo efficacia. È un futuro da scoprire, oltre i confinamenti dei contenitori costosi e pericolosi.
Nell’emergenza che stiamo vivendo si è visto che «non posso curarti senza di te», con capacità di gestire risultati di salute come bene relazionale, sociale, pubblico e da condividere, non da consumare. Non basterà quindi un patto di solidarietà per «la salute e la giustizia sociale» tra cittadini, operatori, istituzioni, volontariato, produttori, mondo della comunicazione… senza un cambio di paradigma.
Negli ultimi vent’anni le cure domiciliari sono rimaste «prestazioni a domicilio» insufficienti e disuguali, che hanno lasciato alle famiglie il compito di garantire l’intensità clinica e umana necessaria. È mancato il salto strategico per integrare la doppia capacità, quella verticale per gestire l’acuzie e quella orizzontale per gestire il sistema delle cure integrate. Archimede lo aveva previsto: base per altezza diviso due è un’area non un triangolo. Nella realtà attuale è un triangolo delle irresponsabilità, dove tutto grava sul lato più debole, sulla famiglia e su chi è più fragile. La differenza si fa invece bilanciando il curare e prendersi cura con la giusta intensità umana, tecnologica e professionale.
Si pensa che la differenza tra cure residenziali e cure domiciliari dipenda dal profilo di gravità. Ma non ha senso, di fronte all’evidenza delle molte cure integrate di lungo periodo che garantiscono l’intensità clinica e umana necessarie per convivere attivamente con la cronicità, a costi sostenibili per profili di elevata gravità. Per questo l’istituzionalizzazione non necessaria è un muro di vecchia cultura e grande profitto. Non riguarda soltanto le persone anziane, ma tutte le persone che, per ragioni di fragilità, disabilità, ridotta autonomia, possono essere aiutate nei loro spazi di vita, con risposte flessibili, personalizzate, in concorso al risultato, con una clinica di alto livello, liberata dal prestazionismo iatrogeno, costoso e pericoloso.
È quella che riesce a governare tre livelli di azione tra loro integrati: l’apporto micro generativo che la genetica mette a disposizione, l’apporto meso generativo che valorizza le capacità di ogni persona e delle famiglie, l’apporto macro generativo che fa leva sui sistemi di responsabilità personali e comunitarie.
Il «concorso al risultato» può cioè diventare forma generativa e organizzativa che non dipende dall’offerta e dai suoi costi, ma dal rendimento degli input condivisi e necessari per sfide altrimenti impossibili. Per questo serve una grande opera capace di ridisegnare il welfare e i suoi sistemi di servizi intorno alle persone, liberando le cure domiciliari e intermedie dal prestazionismo. È una porta stretta e necessaria per trasformare l’assistenza in investimento, cioè passando da un sistema di prestazioni a un sistema di soluzioni integrate.
Non basterà quindi ridisegnare l’offerta senza ridisegnare il sistema delle responsabilità, lasciando parlare i frutti, la loro utilità sociale, misurando sistematicamente i risultati. Sperimentazioni territoriali ci dicono che è possibile e vantaggioso per tutti, con soluzioni cliniche e umane autoportanti, con risultati umanamente ed economicamente sostenibili. La cultura iatrogena considera la fragilità debolezza, dipendenza, perdita irreversibile, giustificando istituzionalizzazioni non necessarie. Si accontenta di pratiche cliniche di «riduzione del danno» rassegnate alla cronicità.
La fragilità non è un indice di premorienza, ma una condizione esistenziale diffusa e gestibile con un’adeguata occupazione di welfare, tenendo conto che i nostri indici di occupazione in sanità e nel sociale sono significativamente inferiori rispetto ad altri paesi europei. Un contributo verrà dall’epidemiologia, se diventerà capace di comporre mappe di forza e (non solo) di fragilità delle condizioni di vita. Integrated care is what we all want, Fiona Godlee tematizzava così nel 2012 un suo editoriale nel BMJ la cronica difficoltà di «integrare e personalizzare», cioè di «fare cose diverse per persone diverse» a misura di bisogni e capacità.
Servono strategie per armonizzare l’istituzionale e il gestionale, l’organizzativo e il professionale, persone e comunità, «senza interruzioni di responsabilità». La valutazione dei benefici personali e sociali può aiutare a comprenderlo e a confutare l’assioma che «il livello di gravità giustifica l’adozione di soglie standardizzate di istituzionalizzazione». L’esperienza degli ultimi vent’anni ha evidenziato l’irrazionalità di questo modo di pensare e di agire, il suo risultato è controllo dei posti accreditati. Viene dalla cultura funzionalista e materialista che ha cercato di gestire la vita come un «package», un impacchettamento di condizioni di vita a rischio di morte anticipata. L’alternativa è invece la vita dignitosa, con gestioni professionali, capaci di garantire tutta l’autonomia umanamente possibile, a costi sostenibili con risultati vantaggiosi per tutti.
fonte: STUDI ZANCAN 1/2020