Covid 19 circola ancora, in Italia e ancor più nel resto del mondo. Ciò significa che, come si dice, dovremo conviverci a lungo, e non si può escludere che, laddove si rinvengano focolai di contagio, si ritorni a misure più restrittive come il lockdown, magari a livello locale. Di qui la necessità che i governi locali e nazionali traggano dall’esperienza tragica appena vissuta alcune lezioni di fondo. Questo è lo spirito che anima il parere emesso dal CNB lo scorso maggio, dove si mettono in luce non solo i danni della pandemia, ma anche le conseguenze indesiderate delle misure prese per combatterla*. L’effetto più grave è stato l’approfondirsi di disuguaglianze lungo le linee del genere, della classe sociale, dell’età, e anche di quelle etniche e di “razza” (nel caso per esempio delle persone Rom e Sinti o dei e delle richiedenti asilo rinchiuse nei cosiddetti centri di accoglienza). Sempre più ci si rende conto che “la salute innanzitutto” è obbiettivo più complesso di quanto si sia voluto far credere, che non può essere schiacciato solo sulla difesa dal virus; e che la dicotomia fra salute e economia è ingannevole. Come scrivono alcuni studiosi (thelancet.com, vol.396, July 4th, 21), se per i benestanti la recessione significa taglio di ricchezza, per i poveri implica taglio dei mezzi di sussistenza. Proprio dall’ottica dei più vulnerabili risalta la necessità di considerare le tante facce della salute, tra queste un adeguato accesso a risorse economiche sociali e culturali. Insomma, “siamo sulla stessa barca” è vero solo se con “barca” intendiamo il pianeta che condividiamo con gli altri esseri umani e tutti i viventi, ciò che richiederebbe un’assunzione collettiva e individuale di responsabilità nel prendersene cura. Altrimenti, nella tempesta i primi ad annegare sono i più vulnerabili, che hanno una barca inadeguata al tifone o non ce l’hanno affatto. Molti sono i gruppi che hanno pagato e stanno pagando i costi più alti della pandemia e del lockdown. Oltre alla strage di anziani e anziane nelle Rsa, oltre a quelli e quelle che hanno continuato a lavorare (44.000 i contagiati tra i lavoratori, secondo l’Inail), ci sono i bambini e le bambine, privati della scuola e dei contatti con i coetanei, i malati gravi non- Covid, le persone con disabilità, i detenuti e le detenute, le e i migranti senza permesso di soggiorno. E le donne, naturalmente, specialmente quelle con bimbi piccoli, alle prese con un enorme aggravio di lavoro di cura, oltre, spesso, allo smart working da casa. Le donne, quando un lavoro per il mercato ce l’hanno – e si sa quanto poche siano, rispetto alla media delle donne europee— sono impiegate in maggioranza nella scuola e nei servizi, quelli sanitari inclusi, sono spesso precarie e quindi più a rischio di non poter tornare al lavoro nel post-pandemia.
Si possono trarre alcune indicazioni per i decisori politici. Nel caso di un riacutizzarsi dell’epidemia, è bene predisporre misure proporzionate e bilanciate. Se gli scienziati sono fondamentali nell’offrire le conoscenze, la delicata valutazione dei costi/benefici delle misure da adottarsi è il campo precipuo della politica. L’esperienza di questi mesi ha insegnato qualcosa, anche a cogliere le differenze nelle politiche di contrasto: pressoché tutti i paesi hanno fatto ricorso al lockdown, ma con modelli differenti, da valutare con attenzione. In secondo luogo, si richiede una assunzione di piena responsabilità da parte delle istituzioni per diminuire sia le disuguaglianze pregresse che quelle nuove dovute alla pandemia: per investire ad esempio nella scuola pubblica, nell’università e nella ricerca. In una parola, per potenziare il nostro sistema di welfare e renderlo davvero universale.
*Parere CNB, Covid-19: salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale