Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri
Così scriveva ne “Il mestiere di vivere” il grande scrittore Cesare Pavese. Amara riflessione di un intellettuale triste, che scelse di togliersi la vita divorato dalla depressione, o grande verità? Le moderne ricerche scientifiche dimostrano che nelle specie animali che hanno una organizzazione sociale, inclusa la nostra, le interazioni e l’integrazione sono fondamentali e possono influenzare direttamente la salute. Un recentissimo studio pubblicato su Science per la prima volta riunisce e analizza in modo comparato i risultati di ricerche effettuate sull’essere umano e altri mammiferi sulla relazione tra socialità e salute.
Una sintesi interdisciplinare, redatta da quattordici ricercatori che operano in campi diversi del sapere: «Questa review è il risultato di un dialogo intenso e duraturo tra un gruppo di ricercatori che lavorano in North Carolina», spiega a Scienza in rete una degli autori dello studio, Jenny Tung, genetista e professore associato di biologia alla Duke University. «Il principale interesse del nostro gruppo di lavoro è comprendere i determinanti sociali della salute, e in particolare come mettere insieme le competenze di biologi e sociologi, ricercatori che studiano l’uomo con quelli che utilizzano modelli animali, per riuscire a comprendere meglio questi determinanti sociali e il meccanismo con cui operano. È stata una collaborazione unica ed emozionante: è raro vedere sociologi, antropologi, genetisti ed etologi seduti allo stesso tavolo di lavoro!».
Cosa ci spiegano le società animali?
Studi longitudinali condotti negli Stati Uniti mostrano che le differenze nello status socioeconomico possono tradursi in differenze di dieci anni in termini di aspettative di vita, e che una ridotta inclusione sociale può raddoppiare il rischio di mortalità. Ma i modelli umani spesso sono molto complessi, perché ci sono moltissimi fattori confondenti che concorrono nel determinare la salute. Comparare i risultati ottenuti in campo medico con le osservazioni sulle società animali è stimolante perché fornisce nuove, potenti indicazioni. «Per i ricercatori che vogliono studiare e migliorare la salute umana, questa review suggerisce che i modelli animali possono essere molto importanti per la comprensione dei determinanti sociali della salute, soprattutto per comprenderne i meccanismi biologici – spiega Jenny Tung– mentre per i biologi evoluzionistici e gli ecologi il nostro studio indica che c’è un parallelismo e una potenziale continuità tra l’uomo e gli altri animali sociali. Quello che emerge è che la forte relazione tra status sociale, integrazione e malattie possa essere connesso alla stessa storia evolutiva della socialità».
Ci sono tre particolari aspetti della socialità connessi alla salute: l’integrazione sociale che indica la capacità di un individuo di creare e mantenere relazioni, lo status che influisce sull’accesso alle risorse, e le esperienze negative nei primi mesi/anni di vita (early life adversity). Le ricerche sugli animali sono frutto di osservazioni etologiche e hanno il vantaggio, rispetto agli studi sulle società umane, di permettere di studiare con dettaglio la natura dei legami tra individui.
Le ricerche sulle società animali mostrano che gli effetti delle diseguaglianze sulla sopravvivenza trascendono gli effetti della modernità della società umana: l’organizzazione sociale è frutto di un lungo processo evolutivo, e porta con sé aspetti positivi e negativi. Vivere in gruppo è fonte di molti vantaggi: una maggiore difesa dai predatori, la riduzione del dispendio energetico negli spostamenti, un migliore approvvigionamento di cibo. Ma allo stesso tempo aumenta la visibilità rispetto ai predatori, la trasmissione di malattie, e comporta una competizione tra i membri del gruppo. La formazione di gerarchie e i legami che si vengono a creare influenzano le chance di un determinato individuo di sopravvivere nell’ambiente in cui vive.
“Tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri”
Il celebre motto de “La fattoria degli animali” di Orwell sintetizza perfettamente il concetto di status socioeconomico, soprattutto nelle società occidentali attuali, dove per legge siamo tutti uguali, ma in realtà il divario economico crea fortissime diseguaglianze sociali. In un bell’articolo pubblicato su Le Scienze, il neurobiologo Robert Sapolsky descrive come le disparità socioeconomiche si traducano in diseguaglianze nello stato di salute, e questo non solo per via di un diversa qualità delle prestazioni sanitarie o per uno stile di vita più pericoloso, ma anche per le conseguenze stressanti legate al diverso status sociale.
Infatti, anche escludendo Paesi come gli Stati Uniti, dove l’accesso alle cure è mediato dall’ammontare del premio assicurativo, e considerando quelli in cui la sanità è pubblica, i poveri che subiscono diseguaglianze sociali tendono ad ammalarsi molto di più dei ricchi. Un basso status socioeconomico porta a un aumento del rischio di morte per quasi tutte le cause: malattie croniche e acute, incidenti e morti violente, e di conseguenza l’aspettativa di vita è molto maggiore nelle persone con un alto reddito.
La potente influenza delle diseguaglianze socioeconomiche è tale che vengono reputate “cause fondamentali” delle malattie. Anche altri mammiferi sociali hanno società strutturate attraverso gerarchie di dominanza, anche se la loro natura è in generale più semplice della nostra, e si riferisce a singoli gruppi di individui, non all’intera popolazione (mentre nel caso degli umani lo status socioeconomico può fare riferimento a persone con caratteristiche simili che non sono in relazione tra loro).
In termini molto generali, l’età e il sesso sono i principali fattori che regolano le gerarchie, ma a seconda della complessità dell’organizzazione sociale e del sistema cognitivo della specie molti elementi possono intervenire. In alcune specie i ranghi sono acquisiti sulla base di caratteristiche fisiche transitorie degli individui (per esempio la forza fisica) e servono a stabilire l’ordine di accesso a risorse limitanti. Per esempio, in molte specie di ungulati i maschi dominanti sono quelli che hanno accesso alla riproduzione. Si pensi ai cervi maschi che difendono un harem di femmine, e che segnalano ai potenziali avversari la propria potenza attraverso confronti di intensità crescente che possono sfociare in un combattimento vero e proprio, da cui esce un unico vincitore. È chiaro che un maschio di cervo dominante riuscirà a mantenere la propria posizione privilegiata solo finché sarà più forte dei suoi avversari.
In specie con società più complesse, invece, il rango è una caratteristica dell’individuo, che può tramandarlo ai suoi discendenti, come nel caso delle iene e dei babbuini. Avere un rango elevato permette un accesso prioritario alle risorse, ma anche una maggiore protezione. È infatti difficile distinguere il ruolo dello status dominante dalla numerosità e profondità dei legami: in genere gli individui dominanti hanno un maggior numero di connessioni sociali e occupano posizioni privilegiate. Per esempio nei suricati (piccoli carnivori africani coloniali, resi celebri al grande pubblico dal disneyano “Il re leone”) gli individui dominanti hanno una maggiore aspettativa di vita, fino a tre volte quella dei subordinati. Gli individui dominanti occupano un ruolo centrale nella colonia e possono quindi mettersi al riparo più velocemente in caso di attacco di un predatore; inoltre i giovani subordinati sono quelli che più facilmente vanno in dispersione, ovvero abbandonano la colonia alla ricerca di un nuovo posto in cui vivere, e i viaggi solitari in terre sconosciute sono alquanto insidiosi per un animale di circa 700 grammi.
Un esempio simile viene dalle orche: uno studio approfondito sulle dinamiche di gruppo dei branchi residenti nella costa Pacifica nordamericana rivela che, in anni di scarsità di salmone, i maschi con un livello gerarchico più basso sopravvivono meno dei dominanti. Nel gruppo la gerarchia media l’ordine di accesso al cibo, la comunicazione sulle risorse presenti e lo scambio di cibo stesso nel caso un individuo sia stato meno fortunato nella caccia.
Se hai tanti amici vivi meglio
Nel parco nazionale di Amboseli, in Kenya, la savana ospita una popolazione di babbuini gialli, scimmie diurne e terrestri che formano gruppi anche di duecento individui. La società dei babbuini è complessa e le relazioni tra gli individui sono regolate da una gerarchia abbastanza rigida, in particolare per le femmine: il rango sociale di una madre viene infatti ereditato dalle figlie. Nei maschi la situazione è un po’ diversa, perché il rango dipende dall’età e dalla forza fisica dell’individuo, e non dalla posizione sociale della madre. All’interno di un gruppo, le femmine imparentate passano molto tempo insieme, mangiando, riposando e toelettandosi l’un l’altra (il cosiddetto grooming). In caso di difficoltà le femmine possono contare sull’aiuto delle proprie parenti.
Il numero e la qualità dei legami è molto importante per la sopravvivenza delle femmine di babbuino: uno studio dimostra che femmine con un elevato numero di legami con maschi adulti aumentano la chance di sopravvivenza del 45%, mentre avere una solida rete sociale con le altre femmine riduce il rischio di morte del 34%. «In generale non è ancora chiaro il contributo relativo dello status sociale e dell’integrazione in un gruppo sulla sopravvivenza, ma nel caso della popolazione di babbuini di Amboseli, la numerosità e la profondità dei legami nelle femmine sembra essere più importante per la sopravvivenza rispetto al rango dell’individuo», spiega Tung.
Infanzia difficile, salute compromessa
Una persona che è cresciuta in condizioni difficili, con un basso status socioeconomico, ha circa il doppio della probabilità di contrarre malattie cardiovascolari nel corso della sua vita rispetto a persone che hanno sempre avuto un migliore tenore di vita. E questo indipendentemente dal fatto che riesca, nell’età adulta, a migliorare la sua situazione. Tung spiega che «le difficoltà sperimentate nell’infanzia sono fattori predisponenti a un maggior rischio di malattia da adulti. Il meccanismo con cui ciò si verifica è complesso. Innanzi tutto c’è il fenomeno detto biological embedding: le prime fasi di vita sono molto delicate perché l’individuo cresce e si sviluppa in modo rapido, e l’impatto di condizioni ostili è molto marcato perché interferisce con questi processi. Un’altra possibilità è che le esperienze negative nelle prime fasi di vita presagiscono le difficoltà con cui l’individuo si confronterà nell’età adulta. Le due ipotesi non sono mutualmente esclusive, e il nostro studio mira proprio a dimostrare che le ricerche sugli animali, siano essi selvatici o in cattività, possono aiutare a capire il ruolo relativo di questi due fattori».
Ancora una volta un esempio viene dai babbuini gialli: le femmine che hanno sperimentato situazioni avverse nei primi quattro anni di vita (abbandono della madre, condizioni climatiche sfavorevoli, nascita di un fratello a un anno di distanza, basso rango sociale materno) hanno una ridotta aspettativa di vita (la combinazione di più fattori avversi può comportare una riduzione della vita fino a 10 anni), acquisiscono un rango sociale inferiore rispetto a quello previsto, e si integrano poco nel gruppo.
Nei macachi rhesus gli orfani, anche se adottati, hanno uno stato di salute più compromesso delle altre scimmie, anche se nelle fasi successive della loro vita recuperano una socialità più normale, come rivela uno studio svolto in cattività. Gli orfani hanno una maggiore prevalenza di disturbi psichici, ma anche di altri tipi di malattie, oltre ad avere un peso decisamente inferiore rispetto ai macachi che sono stati cresciuti dalla propria madre.
Gli effetti molecolari delle diseguaglianze
«Ci sono forti prove che gli stress psicologici alterino le funzioni fisiologiche e molecolari. Forse le migliori prove scientifiche vengono dagli studi sugli animali in cui i diversi aspetti dell’ambiente sociale possono essere controllati, come il contatto con individui dominanti. Anche se l’assistenza sanitaria, la dieta e le condizioni di vita sono identiche per tutti gli individui, gli animali che sperimentano uno stress sociale mostrano delle marcate differenze nel funzionamento del sistema immunitario, nella regolazione degli ormoni dello stress, e, come rivelano studi recenti sui topi, un elevato rischio di malattie cardiovascolari o tumori», racconta Tung.
Lo stress provocato da problemi sociali va a agire sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, ovvero sul sistema nervoso simpatico, che serve per preparare l’organismo a una rapida risposta in casi di pericolo. Aumentano le concentrazioni dei glucocorticoidi e aumenta l’espressione dei geni che codificano per le interleuchine, proteine che servono per modulare la risposta immunitaria, generando uno stato di infiammazione cronico. Gli individui socialmente stressati sperimentano quindi un più elevato rischio di contrarre malattie.
I macachi che provano stress sociali hanno una elevata prevalenza di malattie coronariche, una maggiore probabilità di contrarre adenovirus, iperinsulinemia e, nelle femmine, si ha una ridotta fertilità. Topi che in cattività sono costantemente associati a individui dominanti mostrano una riduzione dell’aspettativa di vita del 13% legata all’insorgenza prematura di arteriosclerosi, mai osservata in individui dominanti.
Uguaglianza fa rima con salute
Quindi ci sono robuste evidenze che provano come l’isolamento e le diseguaglianze siano fattori che mettono a rischio la salute. Sicuramente restano molte domande aperte sul significato evolutivo degli effetti negativi della socialità, e di certo l’analisi pubblicata su Science mette in luce la necessità di uscire dai compartimenti stagni delle diverse discipline accademiche, perché per capire un fenomeno complesso come quello dei determinanti sociali della salute è necessario affrontare la problematica da diversi punti di vista, dalla comparazione delle società umane e animali, alla sociologia e la genetica.
Viene spontaneo concludere che una società più egalitaria possa garantire un migliore stato di salute della popolazione. Eppure le diseguaglianze sono sotto i nostri occhi e sono in aumento nelle ultime decadi. Come ben sappiamo, proprio gli Stati Uniti sono infiammati dalle proteste in seguito all’omicidio di George Floyd, ennesima vittima di una società che crea distinzioni razziali.
Conclude Tung: «il razzismo è tra i determinanti sociali della salute che, allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, è peculiare dell’essere umano, quindi non si possono trovare modelli nelle società animali per spiegarne le conseguenze sulla salute. Ma il razzismo, anche se non ha conseguenze dirette come nel caso di George Floyd, può sicuramente portare a condizioni di stress sociale cronico, con tutte le relative implicazioni per la salute e la suscettibilità alle malattie. Ci sono infinite ragioni per cui il razzismo sistemico dovrebbe essere eliminato. Una società con un livello più equo di salute è una di queste».
fonte: SCIENZA IN RETE
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