Ai primi di marzo 2020 la popolazione lombarda, e dopo due giorni quella italiana, vengono confinate in casa. Intanto negli ospedali è il caos. Gli operatori di pronto soccorso, reparti, terapie intensive sono stravolti, e spesso contagiati. Il virus colpisce, spesso improvvisamente, causando gravi quadri clinici. La gente muore. I medici non hanno informazioni adeguate né ad un inquadramento etiopatogenetico né riguardo alle terapie. La principale risorsa a disposizione sembra essere l’ossigeno.
È a questo punto che alcuni si pongono la domanda. A chi possiamo chiedere informazioni sul virus? Ed ecco che scartati i colleghi e la letteratura medica non resta che rivolgersi a chi il virus l’ha conosciuto per averlo sconfitto dopo averlo avuto in corpo. Nel corpo di queste persone sono contenute le informazioni riguardo al virus e, soprattutto, riguardo al modo di contrastarne gli effetti. La risposta anticorpale altri non è infatti che la conseguenza della capacità dell’organismo di riconoscere il virus e contrastarlo.
Sono i pazienti guariti, e non i dottori, ad avere la migliore conoscenza, per esperienza, del virus. Alcuni medici, soprattutto in ospedali periferici rispetto ai centri di riferimento per la ricerca medica, decidono di affidare la funzione terapeutica alla conoscenza/esperienza dei pazienti guariti. Tale esperienza è contenuta nel plasma. Trattandola adeguatamente si può aumentare la concentrazione delle informazioni utili. Si preparano sacche di plasma iperimmune. Non si tratta di una scoperta, già in passato si è utilizzato il plasma durante l’epidemia di spagnola nel 1918, e recentemente nel 2015 per l’Ebola.
Sperimentazioni sono state anche condotte per curare scarlattina, pertosse e patologia da pneumococco. Lo si è provato anche in pazienti immunodepressi da Hiv. 2. È un approccio il cui rationale possiamo rintracciare nello stesso atto di fondazione della medicina occidentale, che come sappiamo inizia con Ippocrate di Kos. Egli poneva al centro della terapia la persona stessa che può attivare al suo interno le forze per trovare la guarigione. Il corpo, secondo il medico greco, può essere aiutato a contrastare la malattia, introducendovi un pharmakon. Quale, quanto e quando vada somministrato il pharmakon è problema complesso che definisce, oltre alla capacità diagnostica, l’agire medico.
Si consideri che il pharmakon ha tre differenti funzioni, può essere un rimedio che cura ma anche un veleno o agire come una pozione magica. Nel secondo secolo d.C. il medico greco Galeno introdusse la medicina ippocratica a Roma. Secondo il principio per cui in natura si trovano i rimedi, ricavava pozioni terapeutiche dalle piante, mettendo in pratica il principio ippocratico della medicina naturale. Elaborò un analgesico, che prescriveva per quasi tutte le malattie, cui dette il suo nome. Si trattava di una soluzione di alcol ed oppio.
A conferma del triplo significato della parola pharmakon non erano infrequenti i casi di intossicazione e dipendenza. E va da sé che lo stato di coscienza poteva essere «magicamente» alterato. Pare che anche l’imperatore Marco Aurelio abbia sviluppato la dipendenza dal Galenos. Oggi tendiamo a considerare come farmaco solo i prodotti industriali. Principi attivi confezionati in forma di pillole, bustine, fiale. Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che permane la possibilità del farmacista di svolgere un’attività galenica.
Evitiamo, dunque, di ridurre il concetto di pharmakon a quello di farmaco industriale …LEGGI L’ARTICOLO INTEGRALE SU RPS
Giovanni Rossi, è presidente del Club Spdc No Restraint. Ha fondato la radio Rete 180 la voce di chi sente le voci. Psichiatra e psicoterapeuta ha diretto il Distretto Socio Sanitario di Modena ed il Dipartimento Salute Mentale di Mantova. E’ stato consulente della sezione panamericana della OMS e docente a contratto di psichiatria sociale e psichiatria clinica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Nel 2018 ha pubblicato il volume “Due o tre cose che so di lei. Ricettario per la salute mentale” Editoriale Sometti.