Riprendere come prima ? di Gavino Maciocco

I piani alti della politica frenano su qualsiasi ipotesi di rinnovamento della sanità. Ma dalla base qualcosa si muove.

Ricordare significa riflettere, seriamente, con rigorosa precisione, su ciò che non ha funzionato, sulle carenze di sistema, sugli errori da evitare di ripetere“. Sono queste le parole  pronunciate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, domenica scorsa, 28 giugno, davanti al cimitero monumentale di Bergamo alla presenza dei 324 sindaci dei Comuni della provinciain rappresentanza dei loro cittadini, per un omaggio a quei morti, vittime della Covid-19, che non hanno nemmeno potuto avere un funerale. “Fare memoria”, ha aggiunto Mattarella, “significa anzitutto ricordare i nostri morti e significa anche assumere piena consapevolezza di quel che è accaduto. Senza cedere alla tentazione illusoria di mettere tra parentesi questi mesi drammatici per riprendere come prima”.

Ne aveva di motivi, il Presidente Mattarella, per temere che tutto riprendesse come prima. E non tanto nel comportamento degli italiani, che in generale hanno dimostrato di essere un popolo disciplinato e responsabile, quanto nella disposizione di chi ci governa ai più alti livelli. Perché questo è ciò che sta avvenendo: mettere tra parentesi i drammatici mesi della pandemia, tamponarne quanto più possibile i devastanti effetti economici, ma non toccare il fallimentare quadro di riferimento del Servizio sanitario nazionale pre-crisi (privatistico e ospedalecentrico), concausa della peggiore crisi sanitaria, economica e psicosociale dalla seconda guerra mondiale ( vedi post Covid-19: lezioni dall’emergenza).

L’opera di rimozione è iniziata prestissimo. Delle sei iniziative per il “Rilancio dell’Italia” – questo il titolo del rapporto prodotto dalla commissione diretta da Vittorio Colao – non ce n’è una che riguardi la salute o la sanità (l’unico, vago riferimento al tema si limita a due parole: digital health).

Sono invece nove i capitoli che compongono il programma “Progettiamo il Rilancio”  presentato nel corso degli Stati Generali dal presidente Giuseppe Conte: ebbene neanche qui un capitolo è dedicato alla salute/sanità. Qualcosa troviamo – le solite frasi generiche del tipo “rafforziamo il territorio” – all’interno del capitolo ottavo “Un’Italia più equa e inclusiva”.

Il “Decreto Rilancio” approvato lo scorso 20 maggio si occupa invece ampiamente di salute e sanità (l’art.1 è dedicato all’assistenza territoriale), ma identico è l’effetto rimozione: tutto rimane come prima con l’aggiunta di un po’ più di infermieri.

Il tabù della formazione in Medicina generale. Giovani medici contro.

Che niente debba cambiare lo si è capito da un episodio apparentemente marginale avvenuto all’interno della Commissione bilancio della Camera dove l’Onorevole Lapia (M5S) – in seno alla Legge di conversione del Decreto Rilancio – aveva proposto l’approvazione di due emendamenti che aprivano la strada alla formazione accademica della Medicina generale. Tale proposta era fortemente sostenuta da un gruppo di associazioni di giovani medici Aim, Sigm, Smi e Campagna “2018 primary health care: now or never”. Ma la speranza di vederli approvati è durata molto poco, essendo stati rapidamente ritirati. Pochi i dubbi che sul ritiro abbia pesato l’influenza dell’establishment della Medicina generale, contrarissimo a qualsiasi modifica dello status-quo che assegna al sindacato dei Medici di medicina generale (Mmg) il monopolio della formazione in Medicina generale. In un comunicato congiunto le quattro associazioni dei giovani medici hanno espresso tutta la loro delusione: “Ciò che davvero dovrebbe generare timori non è questo cambiamento ipotizzato, ma l’evidenza che la professione del Mmg in Italia è arretrata nei confronti degli altri paesi EU, e che senza un tempestivo upgrade attraverso una nuova formazione, la professione del Mmg rimarrà obsoleta e sarà destinata ad auto-estinguersi”(…) “La recente pandemia Covid-19 è stata a tutti gli effetti un acceleratore di cambiamenti, confermando la necessità di una evoluzione dell’assistenza territoriale attraverso la creazione di equipe multidisciplinari e multiprofessionali ed una maggiore integrazione dei servizi territoriali ed il coinvolgimento delle comunità. La proposta della Scuola di Specializzazione in Medicina Generale, di Comunità e Cure Primarie, e quindi dell’evoluzione della formazione specifica in medicina generale, andrebbe in questa direzione, avvicinando finalmente la Medicina generale a tutti gli altri attori delle Cure primarie” (…). “È comprensibile che un cambiamento possa generare timori e dubbi, ma troviamo fuorviante alimentarli in mancanza di elementi oggettivi e senza considerare tutti i risvolti positivi di una riforma radicale della formazione in Medicina generale. Ci chiediamo, dunque, se opporsi al cambiamento non comporti l’aggravamento dei danni causati alla Medicina generale italiana dall’immobilismo quasi trentennale del quale è vittima. Consapevoli della possibilità che una volontà politica chiara e forte agisca concretamente verso una radicale riforma dell’assistenza territoriale, chiediamo al governo e alle forze politiche parlamentari di recuperare lo spirito rinnovatore che ha animato la proposizione di questi emendamenti aprendo così una strada che possa dare ad una nuova categoria di medici di medicina generale una formazione di alta qualità che crei professionisti della salute in grado di rispondere ai rinnovati bisogni di salute della popolazione e di contribuire alla sostenibilità del Ssn”.

Medicina generale e Cure primarie. Qualcosa si muove proprio laddove la pandemia è partita.

In una lettera aperta al nuovo Direttore generale della sanità lombarda, un gruppo di oltre 100 medici di famiglia ha avanzato una serie di proposte per porre rimedio allo stato di abbandono in cui versano da anni i servizi territoriali:

  1. passaggio della gestione del territorio al dipartimento delle cure primarie dell’ATS, con delega per la costituzione della rete dei Presidi Sociosanitari Territoriali, diversificati in funzione delle caratteristiche locali, previo investimento nella medicina di comunità (medicina preventiva, igiene pubblica, coordinatori distrettuali, infermieri e case manager, integrazione sociosanitaria etc..).
  2. Attuazione delle Aggregazioni Funzionali e delle Unità Complesse dei medici delle cure primarie, previste dalla riforma Balduzzi e di fatto rimaste sulla carta, per ricostruire la comunità di pratica dei professionisti del territorio.
  3. Incentivazione della telemedicina, dei teleconsulti specialistici per smaltire le prestazioni arretrate, della dematerializzazione delle procedure e dei collaboratori di studio (segretarie e infermieri) per liberare risorse a vantaggio della gestione clinica
  4. superamento dei Gestori ospedalieri della PiC (Presa in Carico) con affidamento della cronicità alle aggregazioni e alle Cooperative della Medicina generale.

Proposte a dir poco rivoluzionarie in una Regione che – con le riforme Formigoni e Maroni – di “quella roba lì” (copyright Giorgetti) si era disfatta e non ne voleva sentir più parlare.

Altrettanto importante è un documento approvato dalla Commissione sviluppo professionale continuo e cultura dell’Ordine dei Medici di Verona riguardo alla riorganizzazione sanitaria nella  fase post-epidemica, dove – fra l’altro – si legge:  “Le nuove politiche sanitarie regionali post epidemiche dovrebbero , quindi, puntare a stimolare un rafforzamento della medicina di base organizzata con modalità operative che vedano i medici di famiglia dotarsi di sedi adeguate[a], con gruppi di lavoro che comprendano personale infermieristico e amministrativo e la dotazione di attrezzature diagnostiche utilizzabili sia in ambulatorio che a domicilio come saturimetri di precisione,  elettrocardiografi ed ecografi e che consentano di sfruttare appieno le attuali possibilità offerte dalla telemedicina. La proposta è, quindi, di favorire la formazione di team di Mmg (ad esempio, 10 medici per 15.000 abitanti con personale infermieristico e amministrativo) da adattarsi al territorio prevedendo incentivi per le zone disagiate o montane.

Nota[a] L’epidemia da coronavirus ha, fra l’altro, evidenziato l’inadeguatezza delle sedi fisiche di molte medicine di gruppo. Manca, infatti una tipologia urbanistica e architettonica specifica per questa modalità assistenziale; le sedi sono spesso ricavate ristrutturando spazi commerciali al piano terra di edifici ad uso abitativo e commerciale. La recente esperienza suggerisce che vengano progettati spazi appositi che comprendano ad esempio, un locale da adibire ad “ambulatorio sporco” e dotazioni di DPI di emergenza stoccati in previsione di una emergenza, nonché spazi dedicati alla segreteria e al personale infermieristico. I Comuni dovrebbero, da parte loro, predisporre nella loro programmazione urbanistica spazi e standard urbanistici appositi per queste attività.

Ringrazio Massimo Valsecchi per avermi fatto partecipe dell’importante documento dell’Ordine dei medici di Verona anche perché mi consente di concludere il post con due osservazioni:

  • la questione delle strutture territoriali indispensabili per lo svolgimento di attività associate dei medici di famiglia e dei gruppi multidisciplinari (vedi UCCP, Unità complesse di cure primarie) non è stata minimamente affrontata nell’ultimo decennio, contribuendo al progressivo decadimento dell’intero sistema dei servizi territoriali. E neppure la pandemia è riuscita a risvegliare i decisori politici sull’urgenza di affrontare tale questione.
  • Cosa che avvenne invece nel decennio precedente quando – 2006 – un Ministro della salute lungimirante – Livia Turco – decise di avviare un programma nazionale di creazione di Case della salute (attuato solo in minima parte, non certo per responsabilità di Livia Turco), proprio per dare una “Casa” e quindi uno stimolo a forme innovative di organizzazione delle Cure primarie, che nel corso di questa pandemia hanno funzionato egregiamente (vedi La casa della salute alla prova di Covid-19).

fonte: 

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