L’annuncio di numerosi contagi e decessi dentro le strutture residenziali per anziani sta suscitando notevole allarme nel nostro paese e non solo. Queste strutture sono diventate tra i principali focolai di concentrazione e poi di diffusione della pandemia nel territorio. In strutture comunitarie che ospitano sino a cento e più persone anziane, l’entrata del virus è avvenuta sia attraverso le visite dei parenti che il contagio di operatori asintomatici e non ha lasciato scampo alle persone più fragili. Non a caso, in una recente intervista sul quotidiano la Repubblica, il presidente dell’Uneba Lombardia (che rappresenta una delle principali organizzazioni dei gestori di strutture per anziani) ha affermato senza mezzi termini che “una volta che il virus entra nelle case di riposo, gli anziani muoiono come mosche” .
Il forte legame fra la pandemia e la sua diffusione nelle strutture residenziali per anziani rimanda indubbiamente al fatto che, in queste strutture, si concentrano gruppi numerosi di persone purtroppo particolarmente esposte alle conseguenze dell’infezione. Come sappiamo dall’ultimo Documento di sorveglianza integrata COVID-19 disponibile al momento in cui scriviamo, oltre l’80% dei decessi si concentra infatti nella fascia di età +70. Ciononostante, si può ritenere che, proprio perché concentrano al loro interno una popolazione molto fragile, queste strutture avrebbero dovuto, e dovrebbero sempre, offrire una condizione di particolare tutela sanitaria, per quanto riguarda le procedure, i dispositivi di protezione individuale, nonché le misure preventive volte a controllare l’infezione e limitare il contagio. La diffusione dell’infezione ha invece falcidiato non solo gli anziani fragili, ma anche un numero rilevante di medici, infermieri, operatori socio-sanitari, creando le premesse per ulteriori difficoltà nella gestione di queste strutture.
Come mai tutto questo è avvenuto? Si poteva evitare questo risvolto così drammatico della pandemia?
Alcuni dati appena pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità iniziano a documentare le dimensioni di quella che può apparire come una vera e propria strage. Su 1.634 Residenze Sanitarie Assistenziali campionate a livello nazionale (che ricoverano 18.877 anziani, pari a circa il 7% dell’in¬tera popolazione dei ricoverati over 65), il tasso di mortalità nei mesi di febbraio e marzo è stato del 9.6% a livello nazionale, ma con enormi differenze regionali: si va dal 5% in Emilia Romagna al 6.4% in Veneto, sino a ben il 19.2% in Lombardia. Da questi dati va detratto ovviamente il tasso di mortalità raggiunto nello stesso periodo di tempo negli anni precedenti.
Se potessimo applicare gli stessi tassi di mortalità all’intero universo, dovremmo considerare che al 20 marzo avremmo avuto almeno 25.000 morti nelle strutture residenziali del paese nell’arco di meno di due mesi. La stessa indagine segnala che l’86% delle strutture indagate ha riportato “difficoltà nel reperimento di Dispositivi di Protezione Individuale”, il 36% ha riferito “difficoltà per l’assenza di personale sanitario a causa di malattia”, e il 27% ha dichiarato di “avere difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti da COVID-19”.
Se queste domande troveranno risposta solo a fronte di indagini mirate che dovranno compiersi (anche per accertare eventuali responsabilità), in questa nota intendiamo collocare questi interrogativi nel quadro del¬la situazione attuale delle strutture residenziali nel nostro paese, per comprendere quali sono le condizioni organizzative e finanziarie in cui queste strutture operano. Qual è il loro stato di salute? Quali tendenze hanno prevalso negli ultimi anni?
Raccogliere dati e informazioni sulle strutture residenziali per anziani è oltremodo difficile. L’unica fonte che restituisce un quadro generale del fenomeno è l’indagine ISTAT sui presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari nel nostro paese. Tale indagine offre, tuttavia, solo un quadro d’insieme generale, senza fornire indicatori specifici relativi alla qualità dei servizi offerti. Inoltre i dati dell’indagine vengono forniti con gravissimo ritardo: ad oggi gli ultimi disponibili si riferiscono al 2016, ovvero 4 anni fa. L’assenza di dati e informazioni aggiornate sottolinea a nostro parere una scarsa attenzione da parte delle Regioni e dello Stato verso queste strutture, che dovrà essere colmata al più presto.
Una fotografia d’insieme
Premessi, dunque, i limiti che ogni analisi scientifica del settore della residenzialità sconta nel nostro paese, vediamo ora cosa ci dicono i dati ISTAT disponibili (raccolti consultando il database online http://dati.istat. it/ e integrando con alcune fonti complementari).
Innanzitutto, nel 2016 le strutture residenziali in Italia sono 12.500, con 285.000 ricoverati over65. Tale cifra corrisponde al 2,1% dell’intera popolazione over 65. L’offerta di strutture residenziali è fortemente differenziata geograficamente: mentre in Lombardia e nelle regioni del Nord-Est la copertura è del 3%, nelle regioni del Centro la copertura è del 1,5%, nelle Isole del 1,2% e solo dello 0,9% nel Mezzogiorno. In pratica, l’offerta di posti letto residenziali è nel Nord maggiore di almeno tre volte rispetto a quella delle regioni del Sud ed è doppia rispetto a quella delle regioni centrali.
Anche considerando le regioni italiane con la diffusione più ampia, la distanza rispetto agli altri Paesi avanzati è notevole. Il tasso di copertura (che misura la quota di anziani over 65 anni ricoverati in queste strutture) risulta nel nostro paese circa la metà di quello della Spagna, un terzo di quello tedesco, quasi un quarto rispetto a Svezia e Olanda (vedi figura 1). Ci superano anche paesi dell’Estremo Oriente come Giappone, Corea e persino gli Stati Uniti, un paese in cui l’investimento nella sanità è alquanto selettivo. Dietro a noi troviamo soltanto la Polonia. Nel corso degli ultimi 10 anni, pur partendo da un livello già inferiore a molti altri Paesi, non c’è stato alcun aumento, mentre altri Paesi europei come la Spagna e la Corea, che partivano da un livello equivalente al nostro, oggi hanno quasi raddoppiato la disponibilità di posti letto. L’investi¬mento politico e finanziario in questo settore è dunque storicamente, e anche recentemente, molto basso, a conferma dell’estrema residualità che questo sistema ricopre nel nostro paese.
Le strutture esistenti sono in gran parte occupate da persone molto anziane: il 75% ha infatti più di 80 anni (il 79% in Lombardia). La quota di ricoverati non autosufficienti, ovvero con scarsa o nulla autonomia nella gestione delle funzioni elementari della vita quotidiana, è pari al 78%, ovvero circa quattro su cinque. In Lombardia la quota è pari al 94%. Siccome l’età media femminile è più elevata di quella maschile, la presenza di donne ricoverate è largamente maggioritaria: il 75%. Si tratta quindi di strutture abitate in gran parte da persone con elevata fragilità e scarsissima autonomia. La tendenza negli ultimi anni è all’aumento dei non autosufficienti e dei più anziani. Se ancora nel corso degli anni ’90 del secolo scorso le strutture residenziali erano considerate come una possibile soluzione abitativa legata alla solitudine e alla impossibilità per varie ragioni di restare nella propria abitazione, sempre di più esse sono diventate strutture per una popolazione molto anziana e fragile, con forti necessità di cura sanitaria e assistenziale.
Una quota notevole di strutture residenziali assume oggi le sembianze di una struttura sanitaria di lungodegenza. L’84% dei ricoverati (il 97% in Lombardia) è in una struttura a media o alta intensità sanitaria, ovvero con un forte livello di sanitarizzazione. Il 36% (il 42% in Lombardia) dei ricoverati è collocato in una struttura ad alta intensità sanitaria, caratterizzata da “prestazioni erogate in nuclei specializzati (Unità di Cure Residenziali Intensive) a pazienti non autosufficienti richiedenti trattamenti Intensivi, essenziali per il supporto alle funzioni vitali (ad esempio ventilazione meccanica e assistita, nutrizione enterale o parenterale protratta, trattamenti specialistici ad alto impegno)”. Il sistema, soprattutto in Lombardia, è quindi fortemente specializzato nell’offerta di cura sanitarie ad elevata specializzazione, utile per persone con una forte compromissione della loro autonomia ed integrità fisica.
In sintesi, in Italia il sistema è molto più ridotto che negli altri paesi occidentali e fortemente schiacciato su prestazioni ad elevato contenuto sanitario. Tale aspetto indubbiamente si lega alla centralità assunta nel nostro paese dalla permanenza a domicilio dell’anziano, sostenuta dalle reti familiari e più recentemente dall’emergere del fenomeno degli assi¬stenti familiari (le cosiddette badanti). Tuttavia, anche la carenza di politiche nazionali e di investimenti nel settore ha giocato un ruolo cruciale. Alla luce di ciò, e diversamente dagli altri paesi europei, la componente alberghiera e abitativa della residenzialità rivolta anche a persone in buona salute e con poche necessità assistenziali è pressoché assente e le strutture si presentano come unità di offerta fortemente sanitarizzate per lungodegenti. Dovremmo essere, quindi, di fronte a realtà in grado di offrire importanti garanzie sul piano sanitario e assistenziale. Tuttavia tale aspetto, purtroppo, spesso non si verifica, come hanno mostrato le drammatiche vicende delle ultime settimane.
Le tendenze in corso e le criticità emergenti
Per comprendere le criticità attuali dobbiamo spostare lo sguardo dalla fotografia del presente e osservare l’evoluzione di queste strutture negli ultimi anni. La figura 2 offre un quadro di sintesi, per l’Italia e la Lombardia.
Nel periodo 2009-16, il numero dei ricoverati è diminuito complessiva¬mente di 15.000 persone, pari al 5% del totale. In Lombardia la riduzione è stata molto più forte: il 16% pari a 12.400 persone. Mentre in Italia la contrazione ha interessato soprattutto le persone autosufficienti (-13.000 ricoverati), in Lombardia la contrazione ha riguardato anche i non autosufficienti (-9.000, pari a -12%). A fronte di un aumento del¬la popolazione anziana e del numero di persone non autosufficienti, il sistema delle residenze ha quindi conosciuto, in controtendenza, una contrazione significativa nel numero dei ricoverati. La contrazione dei ricoveri è coincisa con una focalizzazione delle residenze verso l’alta intensità sanitaria (che assorbivano il 26% nel 2009 e assorbono il 36% dei ricoverati nel 2016) con il conseguente aumento dei ricoverati in strutture ad elevata intensità e con età superiore ad 80 anni (dal 72% al 75%).
Due tendenze parallele emergono quindi chiaramente. Da un lato una progressiva sanitarizzazione delle prestazioni e delle strutture (che assumono sempre più le sembianze simili a quelle di ospedali o case di cura per permanenze prolungate). Dall’altro una parallela fragilizzazione della platea dei ricoverati, sempre più composta da persone molto anziane e più fragili sul piano sanitario.
La combinazione di queste due tendenze ha comportato l’esplodere di notevoli tensioni sul piano gestionale e finanziario. Nello specifico, l’au¬mento dell’intensità sanitaria ha comportato un aumento progressivo dei costi di gestione e di personale. Se da un lato le strutture dovrebbero essersi adattate a queste funzioni più specializzate (con importanti investimenti in termini di attrezzature sanitarie e riabilitative), dall’altro il personale dovrebbe richiedere livelli di qualificazione e di supervisione medica sempre più elevati. Peraltro, aumentando anche la proporzione di ricoverati in condizioni sanitarie precarie, è aumentato anche notevolmente il costo pro-capite per utente. Basti pensare, che stando ai dati pubblicati nell’indagine ISTAT sulla spesa sociale dei comuni, a livello nazionale la spesa media pro capite sostenuta dai comuni per le strutture di ricovero per anziani è aumentata, fra il 2009 e il 2016, del 50% circa, passando dai 3.900 euro a 5.972 euro.
All’aumento dei costi si contrappone tuttavia un sistema di finanziamento farraginoso e impoverito. Farraginoso perché i ricoveri in residenze a media-alta intensità sanitaria vengono coperti finanziariamente dal SSN, tramite le Regioni, solo per una quota pari formalmente al 50%, mentre il costo restante deve essere coperto dall’utente (o dai suoi familiari, oppure dalle amministrazioni comunali nel caso di persone con livello di reddito molto modesto). Impoverito perché, nella stragrande maggioranza dei casi, le Regioni non hanno provveduto ad aumentare nel corso degli anni gli importi di remunerazione delle quote sanitarie, nonostante il progressivo aggravamento delle condizioni di bisogno degli anziani ricoverati. In queste condizioni, l’aumento dei costi è stato scaricato esclusivamente sulle tariffe pagate dagli utenti. Di fatto, oggi la quota sanitaria è in molti casi inferiore al 50% previsto dalla legge. Le tariffe sono invece aumentate, mettendo sotto stress i bilanci di anziani e famiglie. Basti pensare che in Lombardia, mentre la quota sanitaria è in media di 41,3 euro pro die, la quota pagata dagli utenti è variata in media, fra il 2013 e il 2016, da un minimo di 54-60 euro pro die (+10,23%) ad un massimo di 63-69 euro pro die (+8,56%) (si veda http://www.lom-bardiasociale.it/2019/06/20/rette-rsa-cosa-si-nasconde-dietro-ai-numeri/). Il costo complessivo mensile a carico dell’utente è quindi intorno a 1.800-2.000 euro al mese (circa 22.000 euro all’anno).
L’aumento delle tariffe segnala d’altra parte l’esistenza di gravi problemi di sostenibilità finanziaria per i gestori delle strutture, costretti ad aumentare le tariffe a fronte dell’aumento dei costi e il mancato adeguamento della quota sanitaria. A ciò si aggiunge un secondo elemento problematico, che ha investito il fattore lavoro. Una tendenza complementare all’aumento delle tariffe è stata infatti la forte riduzione del personale e del minutaggio assistenziale, oltre ai tagli sulla manutenzione delle strutture. Questa tendenza è stata particolarmente importante per la Lombardia. Basti pensare che secondo i dati ISTAT (vedi sopra fig. 2) nel periodo 2009-16, a livello complessivo, il personale retribuito delle strutture in questa regione è stato ridotto di ben 20.000 unità, pari al 20% del personale complessivo. Inoltre, indagini recenti hanno messo in luce come fra il 2010 e il 2016 il minutaggio assistenziale medio per ricovero in RSA (Residenze Socio Assistenziali, ad elevata intensità sanitaria) è diminuito, sempre in Lombardia, da 1.200 a 1.136 minuti (https://www. pensionaticisllombardia.it/pubblicazione-409/speciale-rsa-servizi-resi-denziali-in-lombardia/).
Anche se a livello nazionale non si è assistito ad un taglio del personale (vedi sopra sempre fig. 2), nondimeno la progressiva sanitarizzazione delle strutture è avvenuta congiuntamente ad un netto taglio (pari al 15%) del personale medico, compensato da un aumento di pari proporzioni nel personale adibito alla cura delle persone e alla sostanziale stabilità del personale infermieristico (vedi figura 3).
A fronte quindi dell’aumento dell’intensità sanitaria delle strutture e dell’aumento di ricoverati molto anziani e con forti bisogni di cura sanitaria e assistenziale, si è assistito al taglio del personale più specializzato e, almeno in Lombardia, anche dell’intensità assistenziale. È dunque evidente che la contrazione quantitativa del settore e la sua concomitante sanitarizzazione a fronte di una crescente fragilizzazione della platea dei ricoverati, sono coincise con una riduzione complessiva della qualità dell’assistenza fornita in queste strutture. Alla radice troviamo indubbiamente elementi strutturali che rimandano in primis al mancato investimento di risorse a carico del SSN in questo settore, a fronte di strutture che svolgono funzioni essenziali di assistenza sanitaria.
Un ultimo elemento di conoscenza che ci permette di ragionare sulle tendenze, e sulle implicazioni sul terreno sostantivo della qualità assistenziale, rimanda al dato sulla composizione gestionale del sistema delle strutture per anziani. A questo proposito, i dati indicano una forte presenza di strutture private, sia non-profit che profit. Queste coprono il 78% dei posti letto (89% in Lombardia). Negli ultimi anni c’è stata una chiara tendenza a ridurre la quota delle strutture pubbliche (vedi sopra fig. 3): la riduzione è stata di ben 25.000 posti letto a livello nazionale tra il 2009 e il 2016, pari al 23%. Una buona parte di questi posti letto sono stati recuperati dalle strutture private (+20.000 posti letto a livello nazionale tra 2009 e 2016). In Lombardia il taglio dei posti letto ha colpi¬to maggiormente le strutture private che quelle pubbliche. Tuttavia esse coprono quasi il 90% dell’offerta complessiva.
È quindi avvenuto, o si è confermato, un processo molto rapido di forte privatizzazione del settore. Tra le ragioni della privatizzazione gioca un ruolo importante una presunta maggiore efficienza gestionale e, in particolare, l’opportunità di ridurre i costi delle strutture. La privatizzazione consente infatti, funzionalmente, una riduzione dei costi perché al personale – che rappresenta la variabile principale di costo – si applicano contratti di lavoro meno onerosi e meno tutelati rispetto quelli applicati dagli enti pubblici.
In conclusione, si è costruito un mercato misto pubblico-privato delle strutture residenziali, in cui le tensioni derivanti dal mancato investi¬mento delle politiche pubbliche vengono “scaricate” sull’incremento delle rette e su una tendenza marcata alla riduzione degli standard e dei costi, inclusa la compressione del personale, che si traduce in un decremento sostanziale della qualità assistenziale.
I nodi vengono al pettine?
Non è possibile sapere precisamente se queste tendenze abbiano gioca¬to, nei singoli casi specifici, un ruolo cruciale nel co-determinare la tragica casistica odierna dei decessi e della forte diffusione del virus dentro molte strutture residenziali. Ciononostante si può comunque avanza¬re l’ipotesi che le condizioni strutturali di fondo del sistema, così come analizzate e descritte in questo breve rapporto, non hanno certamente favorito l’applicazione di standard qualitativi elevati finalizzati alla tu-tela sanitaria e assistenziale di una platea di ricoverati in condizioni di grande fragilità fisica, così come degli operatori coinvolti nelle attività di assistenza e cura. Quanto più il sistema si è specializzato nel trattamento della non autosufficienza grave, tanto più la qualità è stata messa a rischio da condizioni finanziarie molto precarie, sicuramente co-determinate da un mancato investimento politico e amministrativo in queste strutture. L’esito è un sistema molto più contratto che in tutti gli altri paesi occidentali, e con standard sanitari e assistenziali bassi e in fase di ulteriore deterioramento.
Tutto ciò impone un ripensamento radicale di questo sistema, in grado di affrontare celermente anche le questioni emerse nell’immediatezza degli eventi recenti. Tali vicende non possono essere certamente trascurate: si pensi al dramma della solitudine di anziani che hanno interrotto i contatti con familiari, che necessitano oggi più che mai di dispositivi tecnologici che facilitino la comunicazione a distanza. Né la soluzione può essere lasciata allo slancio di generosità e di altruismo degli opera¬tori del settore, come la cronaca recente ci racconta presentandoci casi di auto-confinamento nelle strutture degli operatori stessi per limitare l’infezione. Sullo sfondo restano le problematiche di ordine più strutturale che abbiamo qui sinteticamente ricostruito, e che attengono al riconoscimento della strategicità di questo settore nel quadro della politica sanitaria del paese.
INclusive AGEing in place (IN-AGE)
Il progetto “Inclusive ageing in place – IN-AGE” affronta il tema della condizione di fragilità delle persone anziane e i relativi rischi di isolamento sociale. L’innalzamento dell’età media, accompagnato da un aumento dei rischi di essere affetti da forme di disabilità e malattie croniche, pone l’obbligo di assumere una nuova attenzione alla problematica dell’invecchiamento ‘inclusivo’ e, in particolare ai rischi dell’invecchiamento a casa propria.
La finalità della ricerca è quella di proporre possibili azioni e strategie a sostegno del miglioramento della qualità della vita dell’anziano fragile e di un invecchiamento più sereno e sicuro nella propria abitazione. La ricerca si baserà sui dati risultanti dalle attività di rilevamento e analisi che saranno condotte in tre contesti regionali (Lombardia, Marche, Calabria) fortemente differenti sotto il profilo sociale, economico e culturale. Le tre unità di ricerca coinvolte nel progetto (Politecnico, INRCA e Università Mediterranea di Reggio Calabria, con la collaborazione di Auser) opereranno in diverse realtà urbane ed extra urbane dei rispettivi contesti geografici, individuando le condizioni degli abitanti più anziani (over 75 anni) attraverso l’analisi delle molteplici variabili che possono determinare emarginazione ed abbandono. Saranno poste a confronto le varie condizioni rilevate (diversità e analogie) e le specificità territoriali che contribuiscono alla differenziazione fra contesti locali e fra regioni.
Gli autori: Marco Arlotti e Costanzo Ranci, Laboratorio di Politiche Sociali, Politecnico di Milano
Questa nota di riflessione, alla luce degli eventi che stanno drammaticamente colpendo il nostro paese, si colloca all’interno delle attività di ricerca svolte dai due autori nell’ambito del progetto IN-AGE (INclusive AGEing in place: Contrasting isolation and bandonment of frail older people living at home), finanziato da Fondazione Cariplo (grant n. 2017–0941). Per ulteriori informazioni note di aggiornamento sul progetto si rimanda al sito del Laboratorio di Politiche Sociali.