Sovente sentiamo parlare delle persone con disabilità e della loro sessualità come di un tabù. Dopo però avere letto e scritto tanti articoli su tale tema, anche su queste stesse pagine (ndr: Superando) mi è sorto il dubbio se il vero tabù sia la sessualità o sia la disabilità. Chi o cosa allontana, infatti, una persona “normodotata” da chi vive una condizione disabilizzante? Lo allontana il fatto che la persona sia in carrozzina, abbia eventualmente un deficit cognitivo, oppure la sua sessualità? Meglio ancora, il suo sesso?
Ho ribadito molte volte, e forse non è mai abbastanza, la distinzione tra sesso e sessualità, perché si parla molto del primo e poco della seconda, ovvero della sfera psicologico-emotiva della persona. Detto ciò, non possiamo parlare più di tabù sessuale in questa era tecnologica e digitale, quando si vedono sin troppe scene legate al sesso sui nostri schermi, dalle serie televisive ai telefonini, dove il nudo è spogliato e non c’è più il pudore dell’intimo; anzi, il nostro pudore è alla mercé di chiunque. Quindi qual è oggi il vero tabù tra sessualità e disabilità?
Cerchiamo di comprendere correttamente il termine tabù. La Treccani riporta il significato proprio di questo vocabolo in Psicanalisi: «Ogni atto proibito, oggetto intoccabile, pensiero non ammissibile alla coscienza». In Etnologia e in Storia delle Religioni, invece, si parla di «interdizione o divieto sacrale di avere contatto con determinate persone o di cibarsi di alcuni alimenti imposti principalmente per motivi di rispetto».
Dunque possiamo affermare che il tabù è tutto ciò che non si vuole vedere, che si rifiuta e che si allontana. La sessualità, pertanto, è la conseguenza di un tabù culturale molto più grande e radicato.
Partendo da questo presupposto, non allontaniamo la sessualità della persona con disabilità, ma la persona con disabilità in sé, la quale ci fa paura perché non conosciamo cos’è la disabilità e in quella disabilità che incontriamo, proiettiamo tutte le nostre paure più recondite.
Riporto una situazione concreta – non certo l’unica – letta qualche tempo nelle pagine di cronaca di «Foggia Today». Francesco, alunno con disabilità affetto da paralisi cerebrale infantile e che vive in carrozzina, è stato trascurato per mesi dal personale (tra l’altro non qualificato) della scuola. «Dal 20 dicembre nessuno cambia il bambino, basta. Il 7 febbraio l’avete lasciato quattro ore senza bere, senza mangiare e sporco, in uno stato di abbandono»: lo ha dichiarato la madre del ragazzo, denunciando l’Istituto Comprensivo Santa Chiara Pascoli-Altamura della città daunia. Una storia di degrado culturale, simile, purtroppo, a molte altre che riempiono le cronache.
Ebbene, credo che circostanze come quella appena menzionata ci confermino ancora una volta che il tabù non è solo l’affettività o la sessualità, ma piuttosto la condizione del disabile, che spaventa e allontana.
Come ho ripetuto in varie occasioni ci vorrebbe una nuova cultura, una nuova pedagogia della disabilità che non facesse più leva solo sui termini “inclusione” e “integrazione”, ma che parlasse, invece, di “interazione”. Intendo dire che una persona con disabilità non deve essere inclusa o integrata, in quanto essa vive già inserita in un contesto socio-culturale ben preciso; con il termine “interazione” voglio piuttosto sottolineare che occorre l’azione di due soggetti per vivere la relazione dell’incontro. In altre parole, come la persona con disabilità deve andare incontro alla società, così quest’ultima deve andare verso le necessità della persona che vive in un contesto disabilizzante. In questo modo possiamo sconfiggere il “tabù della disabilità” e vivere una nuova dimensione dove vediamo l’altro come parte di un tutto, parte della nostra società, scoprendo così che in realtà non vi è nessuno da includere, ma solo persone con cui vivere delle relazioni ed esperienze comuni a tutti, ognuno con i propri limiti e le proprie risorse.