lI Family act è un buon punto di partenza per cominciare a disegnare un insieme organico di interventi a favore delle famiglie con figli. Perché sia efficace, equo e sostenibile serve però un chiaro sistema di priorità. E la soluzione di alcune ambiguità.
I due obiettivi principali
L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del disegno di legge delega in tema di politiche per le famiglie – il “Family act“- è il primo passo di un ambizioso progetto, contemporaneamente di rafforzamento e ri-orientamento delle politiche a sostegno delle famiglie con figli. Il suo obiettivo dichiarato è sostenere sia il costo dei figli, sia la conciliazione famiglia-lavoro in un’ottica di parità di genere.
Rispetto al primo obiettivo, due sono gli strumenti previsti: l’istituzione di un assegno unico universale per tutti i figli minorenni in sostituzione della miriade di trasferimenti più o meno categoriali oggi esistenti e agevolazioni monetarie o fiscali per le spese dedicate all’educazione (non solo scolastica) e alle attività di tempo libero dei figli.
Il secondo obiettivo è perseguito con il riordino dei congedi genitoriali e di paternità, l’incentivazione al lavoro agile per i genitori di figli entro i quattordici anni, l’allargamento dell’offerta di servizi educativi per l’infanzia, contributi per i pagamenti delle rette dei servizi per l’infanzia o per l’accudimento di bambini in età prescolare al proprio domicilio.
Il primo obiettivo dovrebbe essere raggiunto, tramite una serie di decreti legislativi, entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge delega, contando sul fatto che è già in discussione in Parlamento il disegno di legge Del Rio e altri con lo stesso oggetto; il secondo entro due anni.
Si tratta di obiettivi sicuramente condivisibili, il cui raggiungimento tuttavia è affidato all’incertezza di successivi provvedimenti legislativi e delle risorse che vi verranno destinate. Manca, in effetti, una quantificazione non solo dei costi, ma anche delle somme (nel caso dei trasferimenti di reddito) e dei livelli di copertura (nel caso dei servizi) ritenuti adeguati, o anche di base minima. Proprio per questo, vale la pena di evidenziare i punti di forza, ma anche di debolezza del modo con cui quegli obiettivi sono formulati nel dettaglio dei singoli commi. Ne segnalo i principali.
L’assegno unico per i figli
Per l’assegno unico è ipotizzato un compromesso ragionevole tra universalismo senza distinzioni – tutti ricevono la stessa somma indipendentemente dal reddito – e selettività totale in base al reddito. Si propone, infatti, un importo base uguale per tutti e un importo variabile calcolato in relazione all’Isee familiare, garantendo, nella transizione, che nessuno prenda di meno.
Ne beneficeranno sicuramente le famiglie più povere, che nel sistema attuale non sempre fruiscono dell’assegno al nucleo familiare se i genitori non sono lavoratori dipendenti o assimilati e che, a motivo dell’incapienza, non possono fruire neppure delle detrazioni fiscali. Ne beneficeranno anche i genitori lavoratori autonomi, che oggi non accedono agli assegni al nucleo familiare.
Il problema è, da un lato, la definizione dell’ammontare base, che non può essere troppo basso per non diventare puramente simbolico, ma neppure tanto alto da rendere troppo costosa la misura, o di renderla troppo poco redistributiva. Quanto al finanziamento, se è vero che l’assegno unico assorbirà i trasferimenti attualmente esistenti – assegno al nucleo famigliare, assegno per famiglie con tre figli minori a basso reddito, bonus bebè, detrazioni per figli a carico – avrà però bisogno di risorse aggiuntive per garantire la base universale. Inoltre, l’assegno al nucleo familiare attualmente è finanziato dai contributi (Cuaf) dei datori di lavoro dipendente, quindi il loro assorbimento richiede passaggi negoziali e normativi di una certa complessità. Aggiungo, inoltre, che, contrariamente a quanto da più parti auspicato e previsto anche nel disegno di legge Del Rio e altri, l’assegno unico non assorbirà le attuali detrazioni per i figli a carico, stante che si propone di orientare queste ultime (integrandole con un trasferimento diretto nel caso di incapienza) a compensare specifiche forme di spesa a favore dei figli per consentire l’accesso alle attività educative e ludiche anche extrascolastiche. Un obiettivo condivisibile, ma che andrebbe circoscritto ai gruppi più svantaggiati, per sostenere chi ha minori opportunità, soprattutto se l’assegno unico è invece universale.
I congedi parentali
Per quanto riguarda i congedi genitoriali e di paternità, è apprezzabile l’allungamento a dieci giorni dei secondi, a prescindere dallo stato civile e dall’anzianità lavorativa, l’impegno a valutare l’introduzione del congedo parentale anche per gli autonomi (lettera f), così come l’introduzione di un permesso retribuito di cinque ore all’anno per recarsi a colloquio con gli insegnanti. Sembra invece ridondante la previsione di una maggiore flessibilità nell’uso dei congedi parentali, visto che già oggi possono essere fruiti in modo frazionato anche su base oraria. Viceversa, l’indicazione che si debba stabilire “un periodo minimo non inferiore a due mesi di congedo parentale non trasferibile all’altro genitore” mi sembra fortemente riduttiva, dal punto di vista del riequilibro di genere, rispetto alla situazione attuale, ove dei dieci mesi complessivi nessuno dei due ne può prendere più di sei. Se l’obiettivo è incentivarne l’uso da parte dei padri, meglio sarebbe migliorarne l’indennità.
Infine, è positivo che si indichi la necessità di istituire servizi educativi per la prima infanzia come diritto dei bambini e delle bambine e anche che ci si proponga di aiutare le famiglie a sostenerne il costo fino al 100 per cento. Occorre tuttavia tenere presente che finché i servizi educativi per la prima infanzia copriranno solo il 25 per cento dei bambini, con enormi disparità territoriali e con una forte sottorappresentazione dei bambini di famiglie economicamente modeste e con genitori a bassa istruzione, il rischio di effettuare una redistribuzione alla rovescia è alto. Appare poi problematico che, nella definizione dei servizi il cui costo può essere sostenuto con fondi pubblici, vengano messi assieme, come equivalenti, i servizi educativi e le babysitter, smentendo, di fatto, l’essenziale funzione educativa e non di semplice conciliazione dei primi.
Un buon punto di partenza, dunque, il Family act, per cominciare a disegnare un insieme organico di interventi a favore delle famiglie con figli, ma che richiede un chiaro sistema di priorità, anche per renderlo finanziariamente sostenibile, oltre che equo, e di risolvere alcune ambiguità.