Una delle lezioni più dure che la pandemia ci ha impartito riguarda la vulnerabilità dei sistemi di protezione sanitari e sociali incentrati su ospedali e residenze.
Lo tsunami coronavirus ha messo in discussione una narrazione che considerava la presenza di un ospedale nel proprio territorio come la fortezza Bastiani nel capolavoro di Buzzati, indipendentemente dal bacino geografico, dalla presenza nella stessa azienda sanitaria di presìdi con funzioni analoghe o complementari, da una pianificazione razionale delle specialità per popolazione residente e volumi di attività. Il diffondersi della pandemia a partire da contesti sanitari ed il conseguente crollo dei ricoveri ospedalieri e degli stessi accessi in PS ha fatto barcollare quella visione confortante e protettiva.
D’altro canto, la disponibilità di posti letto residenziali per anziani, persone con disabilità, persone con problemi di salute mentale o dipendenze, era considerato in questa narrazione elemento di qualità di un sistema sociosanitario, che garantiva alle persone fuoriuscite / mai entrate nel ciclo produttivo di trascorrere i propri giorni senza interferire con i tempi serrati del lavoro salariato o imprenditoriale dei propri familiari.
La pandemia ci ha posti di fronte alla realtà di un welfare che ritenevamo, in buona o cattiva fede, “protettivo” che non ha protetto affatto: anzi, ha esposto i più vulnerabili a rischi e conseguenze peggiori ed ha imposto agli operatori sanitari e sociali un tributo molto elevato.
L’insegnamento che tutti sembrano trarne è di una rinnovata attenzione alla medicina territoriale, ai presidi di comunità, alla domiciliarità degli interventi.
Questi aspetti del fare salute sono presenti in Salute Mentale sin dal suo atto fondativo. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici prevista della Legge di Riforma del ’78 aveva appunto il senso di abbattere il Moloch mono-specialistico dove si ammassavano i mix più disparati di malattie e marginalità sociale. La previsione di servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali generali, con un preciso limite di posti letto (15), ed una collocazione organizzativo-gestionale nel dipartimento territoriale, era la prima sistematica risposta alla necessità di integrazione tra ospedale e territorio. E l’attivazione dei Centri di Salute Mentale aperti H24, 7 giorni su 7, con possibilità di accoglienza anche notturna, non è stata forse la prima applicazione dei principi che guidano le Case della Salute e gli Ospedali di Comunità?
Purtroppo non sempre lo spirito della Riforma è stato ripreso dalle norme regionali: si sono così perpetuati reparti ospedalieri con un numero di posti letto superiore a 15 – in particolare, ma non solo, nelle strutture private accreditate e nei policlinici universitari – facendo ricorso all’italica specialità del cavillo amministrativo in grado di rovesciare in sede applicativa il principio della norma. E anche le strutture residenziali – di recente anche alcune REMS, le strutture territoriali previste per il superamento degli OPG – hanno in molti casi superato il limite dei 20 posti letto, concentrando in un unico edificio più “moduli”. Se a tutto questo aggiungiamo che la permanenza in queste strutture si protrae in media per diversi anni, comprendiamo quanto siano reali le preoccupazioni per una residenzialità neo-manicomiale che trasferisce nei territori logiche di segregazione ed esclusione che si ritenevano superate
Quanto descritto, tuttavia, non va addebitato solo a logiche di tipo economicistico – che pure hanno avuto il loro peso, specie negli ultimi 10-15 anni – ma a una cultura ancora diffusa della malattia mentale che coltiva il pregiudizio dell’incurabilità, improduttività e pericolosità della persona con sofferenza psichica. La salute mentale, per le sue caratteristiche interdisciplinari ed intersettoriali, è oggetto difficile da maneggiare con logiche esclusivamente biomediche e quindi spesso sfugge ai ‘radar’ della sanità pubblica italiana, che preferisce considerarla un caso “sui generis” (con l’avallo di quanti preferiscono l’autonomia, sia pur al costo di una sostanziale irrilevanza). Ne è stata diretta conseguenza il posizionamento della salute mentale agli ultimi posti dell’agenda di governo della sanità e il disinteresse dell’opinione pubblica, salvo episodiche fiammate di indignazione innescate da episodi di cronaca.
Un ruolo fondamentale nel determinare il clima culturale descritto è svolto dai centri di ricerca e di produzione del sapere. La metrica che può aiutarci a definirlo è data dall’ampiezza dello spazio di studio e analisi che è stato riservato alla straordinaria esperienza italiana di deistituzionalizzazione e costruzione del sistema di salute mentale di comunità.
Negli ultimi 40 anni abbiamo osservato, nonostante la povertà di investimenti, un’ampia produzione scientifica in salute mentale. Tuttavia, questa produzione ha proceduto per linee parallele, che quasi mai trovavano un punto di incontro: da un lato la linea di impostazione biomedica, direttamente o indirettamente sostenuta da finanziamenti privati, specie in ambito farmacologico; dall’altro, quella che ha privilegiato la valutazione dei modelli assistenziali, l’attività dei servizi, l’efficacia nella pratica degli interventi di inclusione comunitaria. Questa seconda linea è stata marginale nei centri di formazione “mainstream”, che si sono tenuti distanti, salvo rare eccezioni, dal patrimonio storico e di riflessione che ha preceduto, accompagnato, e seguito la Riforma. Alla perdita, o al misconoscimento del senso storico, possono essere ascritti i limiti della produzione e trasmissione del sapere nelle diverse discipline in cui vengono formati gli operatori della salute mentale.
Un esempio virtuoso di integrazione della funzione assistenziale, didattica e di ricerca dell’università nei Dipartimenti di Salute Mentale è quello realizzato in regioni come l’Emilia-Romagna. Ferma restando la reciproca autonomia di università e SSR, il vantaggio di un sistema integrato tra sanità pubblica e accademia ha effetti positivi sulla completezza della formazione, sulla più diretta vicinanza della ricerca alle questioni salienti della pratica clinica e in definitiva sulla salute e la qualità della vita delle persone assistite, superando nell’interesse generale le ancora troppo diffuse autoreferenzialità. Questa modalità risulta particolarmente utile ed apprezzata dagli specialisti in formazione che possono così confrontarsi da subito con le situazioni “reali” che troveranno quando entreranno a far parte del sistema sanitario, che resta il principale committente.
Se le coordinate che ci aiutano a caratterizzare un sistema di cura per la salute mentale sono da un lato il posto letto, in tutte le sue declinazioni, ospedaliere o residenziali che siano, dall’altro il territorio, con tutte le opzioni attivabili per incontrare e sostenere le persone nei luoghi di vita (l’intervento domiciliare intensivo o le attività a ciclo diurno per l’inclusione sociale e lavorativa, solo per citarne alcune), potremmo dire che la recente, tragica esperienza della pandemia ci indica la necessità di procedere speditamente da una psichiatria (ma anche una psicologia o una scienza infermieristica) che privilegia la posizione clinostatica a una psichiatria che guarda ed interagisce con la persona sofferente per tenerla (o rimetterla) in piedi, in posizione ortostatica.
Il cambio di paradigma culturale non sembra più rinviabile, e in tal senso l’auspicata evoluzione della formazione universitaria per il personale del sistema sanitario sarà un fattore decisivo per il salto di qualità che utenti, familiari e decisori politici attendono da tempo.
fonte: da RIPARTE L’ITALIA