I servizi territoriali di Piacenza sono stati una diga al dilagare dell’infezione ad altre zone dell’Emilia-Romagna.
La provincia di Piacenza (confinante con la provincia di Lodi, con il capoluogo distante soli 15 km da Codogno, dove l’epidemia è esplosa) è una di quelle aree dove l’infezione da Sars-Cov-2 ha mietuto più vittime e contestualmente ha messo più a dura prova la tenuta del sistema sanitario regionale. Va precisato, per chi non la conoscesse, che la Provincia si caratterizza per avere un’unica Azienda Sanitaria all’interno della quale non esiste un’Azienda Ospedaliera. Territorio e Ospedale, in altre parole, sono unite in un unico assetto organizzativo. Questo aspetto ha sicuramente favorito una intensa osmosi di saperi, competenze, azioni, mansioni fra profili sanitari e discipline precedentemente arroccate all’interno di confini molto definiti e rigidi.
L’ondata devastante dell’infezione si è manifestata con i suoi aspetti più severi attraverso l’accesso ai Pronto Soccorsi fin dal 21-22 di febbraio. Fin dalle prime settimane la stessa struttura interna degli ospedali si è modificata per poter accogliere le decine e decine di sindromi respiratorie gravi che impegnavano i suoi spazi. Le architetture interne in termini di muri e di ruoli si sono disintegrate. Praticamente tutti i profili professionali sono stati catapultati a svolgere funzioni mai fatte. Tutto l’ordinario ha ceduto il posto allo straordinario.
Il Territorio in questo marasma è accorso a sostenere il sistema ospedaliero per non permettergli di collassare ed ha organizzato sistemi integrati di gestione delle informazioni all’utenza e coordinato i propri Dipartimenti come un unicum. Le Case della Salute, e in particolare l’hub di Piacenza città, sono diventate un cuore pulsante dell’assistenza. Già dopo dieci giorni dall’inizio dell’epidemia due cose sono state chiarissime: primo Piacenza, provincia di confine, era una diga al dilagare dell’infezione da altre zone ad altissima prevalenza e gravità di malattia per la Regione Emilia-Romagna, e secondo se il Territorio non avesse supportato e intercettato più precocemente l’infezione al domicilio non ci sarebbero stati né spazi né professioni mai sufficienti. Non solo: era così travolgente l’onda della sofferenza acuta che si sarebbe trascurato quello che era altro rispetto a Covid-19, con l’ovvia conseguenza di permettere ad altre condizioni morbose di prender forza e vigore e maturare conseguenze infauste.
La consapevolezza della criticità, accompagnata dalla certezza che la medicina generale dovesse essere messa nelle condizioni di portare avanti anche l’attività “ordinaria”, ci ha portato ad anticipare l’indicazione Regionale alla costituzione delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) oltre che a darle una tipizzazione più interventista e dotata di strumenti diagnostici portatili. Sono stati messi a disposizione delle Unità Speciali ecografi palmari, saturimetri, termometri, elettrocardiografi oltre alla comune dotazione di strumenti per la diagnostica clinica ed ai mezzi aziendali per raggiungere tutti i domicili.
Dalla seconda settimana di marzo sono partiti gli addestramenti intensivi di chi si candidava a partecipare a questi team di supporto per acquisire competenza nella diagnostica ecografica toracica (peraltro in parte già posseduta), per formarsi specificamente nel corretto utilizzo dei dispositivi di protezione, per approfondire le linee guida di approccio clinico e terapeutico sui pazienti. Al 16 marzo alla luce delle indicazioni regionali questi team sono stati battezzati come USCA. Erano USCA con caratteristiche avanzate destinate a portare soccorso al domicilio con valutazione clinica, strumentale ecografica ed ecografica, tamponi diagnostici, terapia e quanto fosse necessario per garantire sicurezza al domicilio in integrazione con i medici curanti dei pazienti che sempre sono stati coinvolti nella programmazione, compresa la distribuzione al domicilio dell’ossigeno-terapia.
Il Dipartimento delle Cure Primarie (DCP) si è posto al centro del coordinamento e del governo delle attività. Riceveva le segnalazioni dei pazienti da valutare da parte dei MMG/PLS attraverso una scheda concordata che oltre a contenere dati anagrafici e clinici del paziente indagava le co-morbilità croniche, le terapie in corso (croniche ed acute) e tutte le informazioni che il medico titolare di scelta ritenesse opportuno comunicare. Dal DCP veniva definita la priorità di accesso al domicilio e veniva garantita equità di offerta a tutto il territorio dalle alte valli all’area più vicina al Po, urbane e rurali. Sempre dal DCP partiva la segnalazione dei casi al Dipartimento di Sanità Pubblica, coordinandosi con esso per non sovrapporre la diagnostica della ricerca del virus su tampone nasale e facilitando la conoscenza delle situazioni di convivenza e contatti fra soggetti. Sempre il DCP garantiva il ritorno delle informazioni ai curanti e offriva una rilevazione telefonica successiva all’intervento a distanza di 1-2 giorni per verificare l’andamento della malattia e confrontarsi col medico curante. Dalla prima settimana di aprile si è deciso di intervenire anche nelle strutture socio-assistenziali per anziani e per disabili che cominciavano a pagare un doloroso prezzo in termini di vite all’infezione. Le stesse procedure sono state garantite ai medici di struttura in modo da supportare questa fascia di utenti così fragile.
Sei team a regime, dalle 8 alle 20, 7 giorni su 7 hanno battuto le strade della provincia, visitato case, persone, esteso la diagnostica sui conviventi. Medici e infermieri si sono alternati in questa attività senza pause, senza demotivazioni, senza lamenti valutando mediamente, a seconda delle percorrenze che dovevano garantire, dalle 60 alle 90 persone al giorno. Ad oggi, 5 giugno, hanno totalizzato più di 3.100 valutazioni, ognuna comprensiva di visita, ecografia toracica per la ricerca di polmonite interstiziale, rilevazione di parametri quali saturazione, temperatura, frequenza cardiaca, verifica ecografica per definire eventuali controindicazioni all’uso di farmaci, tampone nasale. Ma chi sono stati i protagonisti di questa iniziativa? Da che mondo professionale provenivano? A parte i dirigenti medici del Dipartimento delle Cure Primarie, che hanno governato e gestito l’impresa, gli operatori sul campo appartenevano alla Continuità Assistenziale, alla Medicina Generale, erano medici in formazione nel corso specifico di formazione in Medicina Generale, liberi professionisti e qualche dipendente ospedaliero.
La messe di dati raccolti e sistematizzati in archivi informatizzati ha permesso, e permetterà ancor più in futuro, di evidenziare alcuni punti e di definire l’intervento in maniera sempre più appropriata, sempre più coordinata, sempre più efficace. Diventerà in altre parole il supporto di scelte organizzative e gestionali, sperando ovviamente che non si ripresenti una criticità del genere ma con l’impegno ad essere pronti e plastici qualora l’epidemia o anche altre situazioni analoghe dovessero ripresentarsi.
A far data dal 22 marzo gli accessi in Pronto soccorso si sono drasticamente ridotti, fino a quasi azzerarsi nel corso del mese di maggio. Merito del lockdown? Contributo di una forza sanitaria così dispiegata? Difficile al momento discriminare quale sia il fattore responsabile, quale il maggior determinante. Questa esperienza ci ha sicuramente insegnato ad inquadrare in maniera più accurata un fenomeno clinico ancora in gran parte sconosciuto. Le nostre competenze sono cresciute progressivamente assieme all’evoluzione della malattia.
Non solo la clinica anche il modello organizzativo ha imparato qualcosa: investire su una solidità strutturale e professionale del Territorio porta buoni frutti. Anticipando alcune analisi più approfondite i principali predittori di esito nella nostra attività si sono dimostrati l’età e il genere maschile. A seguire nella fascia di età compresa fra i 40 e i 65 anni l’evoluzione del quadro era condizionato maggiormente dalla presenza di diabete e ipertensione arteriosa, da livelli di saturazione inferiore a 92% e frequenza cardiaca superiore a 90bpm. Sopra i 70 anni la saturazione di O2 diveniva il predittore più severo seguito dalla frequenza cardiaca mentre la compresenza di patologie croniche perdeva significatività. Questi dati preliminari ci hanno permesso di modulare gli interventi proponendo rivalutazioni a breve termine in accordo con i medici curanti e una maggiore attenzione anche al fine di programmare accessi ospedalieri a fasce di maggiore fragilità. Evidente dai nostri dati e segnalato già ad aprile, è anche un lato oscuro dell’evoluzione di chi ha subito l’infezione: una porzione di malati non raggiunge la restitutio ad integrum a livello polmonare. Lo svezzamento dall’ossigeno terapia in una porzione di pazienti è difficile e forse non si raggiungerà mai. È per questo che il DCP sta proponendo e si sta concretizzando una gestione integrata nuova con day service ospedalieri per approfondire quelle condizioni cliniche che sembrano prefigurare nuove specie di cronicità.
l’autrice Anna Maria Andena è Direttore del Distretto di Piacenza.