Considerereste eccellente uno studente che ha 9 in matematica e 2 in italiano? Certamente no. Per essere giudicato eccellente dovrebbe raggiungere ottimi risultati in tutte le materie. Altrimenti sarebbe eccellente solo in matematica.
Giudichereste eccellente una sanità che ottiene ottimi risultati nell’assistenza ospedaliera ma è carente nelle cure primarie? Certamente no. Per essere considerata eccellente dovrebbe ottenere ottimi risultati in tutte le tipologie di assistenza, in quella ospedaliera come in quella territoriale e nella prevenzione.
Giudichereste eccellente una sanità che concentra l’assistenza nelle grandi aree metropolitane e trascura i territori periferici? Certamente no. Per essere giudicata eccellente dovrebbe garantire un buon livello di risposta in tutto il territorio e a tutte le persone.
Giudichereste eccellente una sanità che costringe i malati a spostarsi lontano da casa per ricevere trattamenti di buona qualità? Certamente no. Nella maggior parte dei casi gli spostamenti costituiscono una forma di lesione del diritto alla salute che mette in discussione qualunque eventuale giudizio positivo sul sistema sanitario, fatte salve le patologie che necessariamente non possono essere trattate sotto casa.
Giudichereste eccellente un ospedale in cui convivono due diverse e antitetiche tipologie di reparti? quelli di alta specializzazione, generalmente accoglienti ed efficienti, dove si erogano trattamenti complessi e si fa ricerca all’avanguardia, e quelli di base, dove si ospitano pazienti che dovrebbero essere trattati in altre strutture, il personale è demotivato e gli ambienti sono degradati. Certamente no. Eppure, eccellenza e decadimento convivono in molti ospedali, appannandone l’immagine agli occhi di tutti e inficiando un potenziale giudizio positivo.
Nessuna struttura (da un albergo a uno sportello bancario) può puntare all’eccellenza se non è eccellente in tutti gli aspetti che la caratterizzano. L’eccellenza richiede livelli straordinari (cioè superiori all’ordinario) in tutte le componenti del servizio, non solo in alcune. Singoli requisiti possono essere valutati sufficienti, e non eccellenti, ma in nessun caso dovrebbero scendere sotto un livello accettabile, pena la perdita del giudizio di eccellenza. Troppe volte si sente esprimere un giudizio centrato solo sui voti migliori, trascurando le insufficienze. Comprensibile, ma profondamente fuorviante.
La nozione di eccellenza che si vuole perseguire non è indifferenti rispetto al tipo di tutela che si vuole garantire ai cittadini. La questione attiene a importanti aspetti di equità.
Vorresti vivere in un paese il cui sistema sanitario è in qualche caso eccellente e in altri scadente? oppure preferiresti vivere in un paese che è semplicemente buono in tutti, ma proprio tutti, gli aspetti dell’assistenza, in modo noiosamente uniforme? Nel primo caso il diritto alla tutela della salute è rispettato solo per chi si ammala delle patologie che possono contare su prestazioni di eccellenza, mentre le persone che necessitano di servizi la cui offerta è scadente sono costrette al fai da te, alla sofferenza, all’abbandono (o, quando possibile, all’emigrazione). È quanto accade in molte aree del nostro Paese, dove si salvano persone colpite da alcune gravi patologie acute ma si tollerano importanti riduzioni dell’aspettativa di vita nelle persone fragili. In questa situazione tutto dipende dalla fortuna di essere colpiti dalla malattia giusta. E non è un caso che le malattie neglette colpiscano soprattutto coloro che sono culturalmente ed economicamente deboli. L’emergenza Covid-19 ci ha però costretti a pensare che un virus può colpire, entro certo limiti, chiunque. E come ai tempi dell’HIV, ci siamo resi conto che non si tratta di un problema solo degli altri: può essere anche un mio problema. Di fronte a questo rischio, tutti desidereremmo vivere in un paese che lo sa affrontare, per quanto possibile, non solo nelle terapie intensive (di eccellenza) ma anche nelle RSA, al domicilio delle persone, fra gli immigrati o i senzatetto (dove l’assistenza è più carente). Nessuno vorrebbe giocare alla lotteria dell’assistenza: tutti vorremmo vivere in un paese che affronta in modo adeguato tutte le malattie, in tutti gli ambiti assistenziali e in tutto il territorio. Non dobbiamo dimenticare che la tutela della salute richiede anche prestazioni e servizi “semplici”, erogati vicino ai luoghi di vita delle persone, in grado di garantire il benessere diffuso della comunità: a tali interventi va ridato valore, a chi li offre va ridato prestigio, a tale assistenza va riconosciuta, quando c’è, l’eccellenza.
L’eccellenza non va quindi confusa con la complessità: eccellenza vuol dire rispondere nel modo migliore ai bisogni di salute di una persona, alla quale deve essere garantita la migliore condizione di benessere fisico, psichico, sociale, e non solo la cura della malattia. Ci sono patologie che non richiedono alta complessità e tecnologie all’avanguardia, per le quali il ricorso a trattamenti complessi potrebbe essere non soltanto inutile e costoso, ma persino dannoso. Eppure, anche per tali patologie è possibile un’assistenza di eccellenza.
L’eccellenza è un concetto multifattoriale: non la si fa solo con l’innovazione, l’alta tecnologia, le strutture edilizie moderne, gli interventi straordinari. L’eccellenza è anche una buona manutenzione ordinaria di tutte le attività. L’esperienza ci dice che l’eccellenza la fanno le persone e su queste bisogna investire, per superare mediocrità spesso dovute più a demotivazione e stanchezza degli operatori che a reale mancanza di beni materiali. L’eccellenza degli operatori comprende anche l’eccellenza dei manager, che nella complessità della sanità richiede qualità e preparazione particolari, non impossibili da trovare laddove la competenza è accompagnata dalla capacità reale di riconoscere i bisogni, di chiedere collaborazioni qualificate, di programmare l’attività evitando di limitarsi a tamponare l’emergenza. E l’eccellenza comprende anche quella dei decisori politici: la tutela della salute è una questione politica perché “il problema degli altri è uguale al mio” e dobbiamo sortirne tutti insieme. Lo diceva don Milani. Ce lo ha ricordato la pandemia.