L’emergenza epidemica che stiamo vivendo ha messo a dura prova il Sistema sanitario nazionale pubblico.
Noi vorremo continuare a definirlo, con orgoglio, universale, ma i tagli lineari applicati alla sanità in passato lo hanno messo a dura prova: cancellando migliaia di posti letto, provocando una gravissima carenza di medici e infermieri [1] , chiudendo interi reparti ospedalieri, e riducendo il numero degli ospedali senza realizzare servizi alternativi come i presidi sociosanitari territoriali. Negli ultimi nove anni, tagliando 37 miliardi di spesa sanitaria [2] è stato messo a serio rischio la salute dei cittadini.
L’esperienza odierna, che non avremo mai voluto vivere, sta dimostrando quanto le politiche del recente passato fossero sbagliate e pericolose. Questa emergenza ci deve indurre a mettere insieme tutte le conoscenze e le competenze che abbiamo maturato per avviare una riflessione che porti a ripensare il nostro Sistema sanitario, correggendo gli errori. Solo così rispetteremo la grande responsabilità dimostrata, in questo frangente e non solo, dai medici e dagli operatori sanitari che con coraggio si sono impegnati ogni giorno esponendosi, spesso senza le dovute protezioni, a gravi rischi e a turni di lavoro massacranti pur di salvare vite umane. Ne sono testimonianza drammatica i tanti morti tra le fila degli operatori sanitari. L’abnegazione degli operatori ha contenuto danni ancor peggiori dovuti ad una gestione dell’emergenza inadeguata (una deriva assolutamente ingiustificabile), attribuibile ad una impreparazione globale, ad un debole ruolo di indirizzo, di coordinamento e di controllo nazionale e da un improprio protagonismo delle regioni. Stiamo vivendo questa terribile vicenda con la consapevolezza che, quando finirà, niente sarà come prima.
Abbiamo scoperto tutti di essere più fragili e indifesi rispetto alle invisibili aggressioni di un virus, cambieremo abitudini e modo di vivere, dovremo ripensare noi stessi, i luoghi dove viviamo, dovremo difendere il diritto alla socialità. Abbiamo scoperto che non basta essere singoli individui, ognuno con i propri interessi, i propri egoismi, intenti a realizzare la propria vita, il proprio benessere, perché situazioni come questa si possono affrontare solo se si è capaci di muoversi come squadra, se si è collettività e se ciascuno agisce nell’interesse di tutti. Per più di mezzo secolo è stata condotta una lotta per debellare malattie endemiche attraverso le vaccinazioni di massa riuscendoci, poi, in maniera incomprensibile, è stata messa in discussione l’utilità dei vaccini, con divisioni pesanti tra provax e novax, per ritrovarci oggi, tutti, a sperare che la ricerca scientifica metta a punto un vaccino che ci consenta di tornare velocemente alla «normalità». Viviamo purtroppo una stagione di pericolosa confusione. È giunto il momento di riorganizzare l’intero sistema di prevenzione pubblica e di ridare centralità alla medicina territoriale, privilegiando cioè il luogo dove le malattie e le emergenze nascono e si sviluppano; e riservando solo per la fase successiva, acuta o più grave, l’azione del sistema ospedaliero, della terapia intensiva.
Questo è accaduto in un sistema sanitario che negli anni è diventato «ospedalocentrico», che da troppo tempo vede la prevenzione povera e marginalizzata rispetto alla medicina clinica; un paese che dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001 ha una sanità sempre più regionalizzata, sempre più privatizzata e con un ruolo dello Stato sempre più debole. Il problema da affrontare oggi non è il superamento della regionalizzazione in sé, ma come questa si è realizzata nell’ultimo ventennio: bisogna correggere questo eccesso di regionalismo senza ripensare ad una centralizzazione del Servizio sanitario nazionale.
E si tratta di ridefinire i rapporti con la sanità privata, che non va cancellata ma integrata sulla base di politiche e di regole che ne definiscano in modo chiaro funzioni, compiti, ruoli e finanziamenti. Troppi poteri sono assegnati alle Regioni. C’è troppa politica regionale che occupa la sanità. Va invece rafforzato il ruolo di indirizzo, di coordinamento e di controllo del livello statale, lasciando alle regioni il ruolo di programmazione spogliandolo da ogni compito gestionale. Bisogna superare il criterio dell’«aziendalizzazione» mantenendo una distinzione tra ruolo politico e ruolo tecnico, a partire dai direttori generali, che vanno scelti per le capacità e le competenze oggettive e non per l’appartenenza partitica.
Sul piano normativo deve essere chiaro che spetta allo Stato definire con legge i principi fondamentali del sistema sanitario e alle Regioni darne attuazione, garantendo alle persone prestazioni sanitarie di qualità e omogenee in tutto il territorio nazionale. Le Residenza sanitarie assistite (Rsa) meritano un ragionamento a parte.
Questa epidemia ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che le strutture residenziali per anziani, oltre a essere diventate centri di profitto privato importanti, sono un concentrato di fragilità, e non offrono condizioni di vita dignitose a persone che, nella stragrande maggioranza, vanno solo aiutate a vivere autonomamente. Se vogliamo che non si ripeta il disastro di questi ultimi mesi dobbiamo lavorare per favorire la permanenza degli anziani nella propria abitazione, mantenendoli integrati nella comunità in cui hanno vissuto. Occorre promuovere «il diritto delle persone di poter scegliere di invecchiare nella propria abitazione», l’assistenza domiciliare, politiche per favorire l’invecchiamento attivo, sono misure che possono far risparmiare importanti risorse alla sanità pubblica e garantire una qualità della vita migliore alle persone. Così come dovremo prevedere anche una legge di sostegno per le famiglie che assistono a casa una persona non autosufficiente.
Le Rsa dunque non vanno potenziate, semmai, quelle che meritano, vanno riconvertite come centri di cura e di riabilitazione per pazienti che hanno bisogno di cure intensive non praticabili a domicilio, naturalmente sotto la gestione o la stretta vigilanza pubblica. L’Italia è il secondo paese più longevo al mondo, prima di noi c’è solo il Giappone; oggi circa il 27% della popolazione ha più di 60 anni. Tra non molto gli ultrasessanteni supereranno il 30% della popolazione. Nell’80% dei casi si tratta di persone attive con competenze intatte e importanti, ma soprattutto, se coinvolte, sono ancora in grado di rendersi utili nell’interesse dell’intera collettività. Invece nel nostro paese esistono pochissimi programmi di coinvolgimento per queste persone alla vita attiva, tutto è lasciato alla buona volontà delle singole persone e all’attività delle associazioni di volontariato, come l’Auser. Il risultato è desolante, milioni di persone vengono molto spesso abbandonate, con una qualità della vita che gradualmente decresce, e tenute ai margini di una società che si divide sempre più tra gli inclusi e gli esclusi; così crescono malattie come la depressione; mentre si fa poco per prevenire e allontanare l’insorgere della non autosufficienza.
Bisogna lavorare per costruire una diversa idea di vecchiaia, magari chiamandola longevità che è un termine positivo, e lo dobbiamo fare subito; un’idea che tenga conto delle mutate aspettative di vita e soprattutto che la consideri come una stagione dove le persone mantengono intatta la propria dignità, il desiderio e la possibilità di progettare nuove esperienze di vita, un’età dove si possa ancora guardare al futuro e non solo al passato. Per costruire anche così un paese meno segmentato, meno settoriale, meno individuale, più coeso e soprattutto più solidale. Pensare a una società che cambia, per affrontare i mutamenti demografici, sarà anche il modo per rilanciare l’organizzazione delle grandi città che devono diventare policentriche, decentrare i servizi, cancellare il concetto di periferia, ricuperando tutte le attività di quartiere, favorendo così la domiciliarità degli anziani ma anche un tenore di vita più sociale, più inclusivo e una qualità della vita migliore per tutti. In questo nuovo contesto urbano le persone in pensione o in età adulta potrebbero adottare il quartiere migliorandone il decoro, la vivibilità, la sicurezza, l’utilizzo degli spazi pubblici, il rilancio delle attività culturali, di servizi ai soggetti svantaggiati, così facendo molti non ci si sentirebbero più esclusi, emarginati, ma persone attive, utili alla collettività e contemporaneamente ricche di autostima e di voglia di fare.
Tutti temi per un agenda politica e sociale che questa epidemia rende ancora più attuali, innovazioni che vengono sollecitate anche dagli organismi internazionali, OMS3 in testa, che chiedono cambiamenti profondi del welfare attraverso politiche che vadano incontro alle esigenze delle persone valorizzando le relazioni umane e la convivenza civile. … leggi l’articolo su RPS
1 Ufficio Parlamentare di Bilancio, Lo stato della sanità in Italia, Cap 5.2, dicembre 2019.
2 Gimbe, Report 7/2019. Il definanziamento 2010-2019 del SSN, 2000, disponibile all’indirizzo internet: https://www.gimbe.org/pagine/1229/it/report-72019-il-definanziamento-20102019-del-ssn.
Enzo Costa, iscritto alla Cgil dal 1973, è stato Segretario generale della Fiom territoriale e regionale di Cagliari e della Sardegna, Segretario generale della Camera del Lavoro Metropolitana di Cagliari, Segretario generale della Cgil Sardegna. Dal 22 marzo 2013 è eletto Presidente nazionale dell’Auser ed è ancora in carica.