Luigi Saraceni commenta una recente sentenza della Cassazione sulla coltivazione ad uso personale di cannabis per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 7 febbraio 2018.
In una recente sentenza, la Terza Sezione Penale della Corte di cassazione, presidente Aldo Cavallo e relatore Carlo Renoldi, ha affrontato l’annosa questione della punibilità della coltivazione della classica piantina di marijuana ad uso esclusivamente personale. La soluzione adottata appare la più equa, razionale e giuridicamente corretta. Nel caso di specie l’imputato aveva coltivato, all’interno della propria abitazione, 6 piantine di cannabis, da cui si sarebbero potute ricavare una quarantina di “canne”.
In questa rubrica sono state commentate numerose sentenze dei giudici di merito che hanno affrontato questa spinosa questione dal 2010 al 2016 con una interpretazione favorevole all’assoluzione del “coltivatore” sulla base di questo ragionevole argomento: la legge punisce la coltivazione di tipo “agrario” e non la coltivazione “domestica”, non essendovi alcuna ragione per punire chi, per procurarsi l’erba destinata al consumo personale, anziché rivolgersi al mercato della droga, la coltiva in proprio. Ma questa ragionevole soluzione è stata sistematicamente bocciata dalla Cassazione.
Ora i giudici della Terza sezione vanno oltre, partendo dalla constatazione che, nel caso sottoposto al loro giudizio, la coltivazione delle piantine era certamente destinata al consumo personale, come dimostrava anche il fatto che il giudice di merito aveva ritenuto destinati all’uso personale circa tre grammi di marijuana rinvenuti nella stessa abitazione dell’imputato.
La Corte procede quindi ad una scrupolosa rassegna della giurisprudenza in argomento, dando conto della soluzione più rigorosa, fondata sulla lettera della legge, che non annovera la “coltivazione” tra le condotte penalmente scriminate dal consumo personale. Ma – osserva la Corte – più convincente appare quella giurisprudenza che, superando l’interpretazione meramente letterale, fa leva sul concetto di “offensività”, che esclude la punibilità tutte le volte che la condotta dell’imputato, pur rientrando astrattamente nel tipo di reato previsto dalla legge, non arreca in concreto alcuna lesione al bene protetto dalla norma incriminatrice.
Partendo da questa premessa, la Corte osserva che il bene tutelato dalla norma di legge che incrimina le condotte di “spaccio”, consiste nell’impedire che la disponibilità dello stupefacente comporti il concreto pericolo della sua diffusione e quindi un incremento del mercato della droga. Or dunque, una coltivazione di poche piantine di marijuana destinate al consumo personale, non è, per definizione, destinata ad incrementare il mercato, e perciò, non essendo idonea a ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice, non è punibile.
In conclusione il Collegio afferma che nel caso concreto la coltivazione in casa di sei piantine di cannabis non poteva recare “alcuna lesione della salute pubblica” in quanto destinata al consumo esclusivo di una sola persona; e aggiunge che a tale condotta non poteva essere attribuita l’effetto di favorire la circolazione della droga e di alimentarne il mercato.
La soluzione adottata dalla recente sentenza della Cassazione è in consonanza con la giurisprudenza della Corte costituzionale che, come ricordano i giudici di piazza Cavour, ha più volte affermato che “l’idoneità offensiva della condotta di coltivazione può stemperarsi nella constatazione” che la lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice dello “spaccio” in realtà, in concreto, non sussiste.
C’è da augurarsi che questa soluzione, in assenza di un intervento risolutivo del legislatore, diventi patrimonio unanime della giurisprudenza.