Diritti negati, digiuno e morte in Turchia. di Franco Corleone

Davvero grazie a Roberto Vecchioni che su la Repubblica di domenica 10 maggio ha scritto un pezzo straziante sulla morte di un musicista del Grup Yorum dopo uno sciopero della fame di 323 giorni per protestare contro il divieto di tenere concerti, di suonare, di cantare che durava da cinque anni.

La libertà fa paura alle dittature e la Turchia di Erdogan vive sulla costruzione di complotti e di nemici perfetti. Ibrahim Gokcek, il bassista del gruppo musicale accusato di essere contiguo a movimenti di opposizione ha lasciato un messaggio tremendo di accusa:«Ci avevano lasciato solo i nostri corpi per combattere».

Prima di lui erano morti Helin Bolek e Mustafa Kocak, dopo mesi di digiuno.

Sono sconvolto, come è possibile che io, persona mediamente informata, non sapessi nulla di questa tragedia incombente? Ha ragione Vecchioni, il nostro Occidente è vile, indifferente e ora si culla nello spot demenziale del «tutto andrà bene». Ma ha torto a scrivere che «nessuno, ma proprio nessuno ne ha parlato». Il manifesto lo ha fatto due volte.

Preziosi dunque gli articoli sul manifesto di Chiara Cruciati, che lui a quanto pare non ha letto. Non sa, o finge di non sapere, che questo non è un caso isolato, poiché la Turchia negli ultimi anni è diventato un grande carcere, dove si può finire senza aver commesso alcun reato. Basta la generica accusa di «terrorismo», che lì (ma è lo stesso in tanti altri paesi) viene appioppata a migliaia di insegnanti, giornalisti, sindaci, parlamentari di opposizione. E chi non finisce in prigione viene estromesso dagli impieghi pubblici.

Dopo il tentato golpe del 2016 sono stati licenziati anche 4.279 magistrati, 3.000 di loro arrestati. È così che, come riferisce nell’ultimo numero il magazine internazionale Global Rights, che da anni denuncia e informa anche sui diritti umani nel regno di Erdogan, secondo i dati dello stesso governo, a gennaio vi erano ben 298.000 persone nelle 355 prigioni del paese, che però dispongono di soli 218.000 posti. Vi sono almeno 1.334 prigionieri malati di cui 457 in gravi condizioni. Vi si trovano persino 780 bambini, in prigione con le loro madri (globalrights.info).

Del resto, basterebbe avere un po’ di memoria per sapere delle condizioni delle carceri e dei diritti in quel paese, dove troppo spesso lo sciopero della fame sino alle estreme conseguenze è l’unica possibilità di protestare.

Come avvenne, ad esempio, nel 2001, con decine di reclusi morti a seguito di un lungo digiuno e altre decine uccisi dall’assalto dei militari alle prigioni in lotta. Ne scrisse il compianto Sandro Margara, per un troppo breve periodo a capo delle nostre carceri dopo essersi recato in Turchia con una delegazione di osservatori internazionali su Fuoriluogo nel gennaio 2001. La sua testimonianza si può leggere nella Antologia dei suoi scritti La giustizia e il senso di umanità (carcere, opg, droghe e magistratura di sorveglianza) che ho curato nel 2015, edito da Fondazione Michelucci Press.

Ora dunque sappiamo. Si può morire anche di indifferenza. La prima cosa da dire, forte, è che la prima manifestazione che si organizzerà a Roma con uomini e donne in carne e ossa, dovrà essere davanti alla Ambasciata della Turchia con il fazzoletto giallo del Grup Yorum al collo. Un silenzio agghiacciante dovrà far crollare i muri dell’intolleranza e della violenza. E solo allora come chiedeva Ibrahim potremo cantare «Bella ciao».

Per prepararci a quell’appuntamento potremmo iniziare una catena umana, di 323 persone di cuore, tante quanti sono stati i giorni del digiuno mortale, per uno sciopero della fame collettivo. Ma da subito bisogna continuare a denunciare quel che succede. Proprio oggi si terrà un’udienza contro Sultan Gokçek, moglie di Ibrahim, e Bergun Varan entrambe di Grup Yorum, accusate di propaganda di organizzazione illegale.

Occorre dare corpo alla speranza di giustizia e libertà. Una democrazia non può vivere a lungo senza diritti, senza sorrisi, senza amore, senza fraternità. Covid o non Covid.

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