Ripartenza: investimenti pubblici e creazione diretta di lavoro. di Laura Pennacchi

Come far ripartire l’economia e la società, terminata la forzata immobilità imposta dall’esigenza di contrastare la diffusione dell’epidemia da coronavirus, è la domanda che ci assilla. Dovrebbe essere ovvio che la priorità sono gli investimenti pubblici e la creazione diretta di lavoro, anche ammaestrati dal fatto che i bassi tassi di interesse protratti per anni a livello mondiale e le permissive politiche monetarie «non convenzionali» – pur necessarie, tanto più oggi – si sono dimostrate insufficienti a canalizzare il risparmio verso gli investimenti e hanno avuto l’effetto controproducente di creare un’enorme massa di liquidità utilizzata prevalentemente per guadagni privati e per la speculazione.

Ma non è così, non sono gli investimenti pubblici e il lavoro ad assillarci e fatichiamo a riconoscere che, anche se lo volessimo, non potremmo tranquillamente tornare al tradizionale modello esportativo e che è necessario inventarsi un modello completamente nuovo basato sulla domanda interna e sui bisogni sociali insoddisfatti, come è richiesto anche dalle indifferibili esigenze della transizione ecologica. Eppure, investimenti pubblici e creazione diretta di lavoro si impongono come priorità anche da un altro, decisivo angolo visuale, quello dello sconquasso finanziario di cui percepiamo le avvisaglie nelle turbolenze dei mercati in generale e di quelli azionari in particolare, in atto da tempo – basterà ricordare che alla fine del 2019 all’euforia e ai proventi anomali delle borse faceva da pendant una decelerazione della crescita che stava già coinvolgendo il 90% dei paesi del mondo –, ma accentuate dalle incertezze legate alla vicenda del coronavirus. Dopo la crisi del 2007/2008 il debito globale, invece di diminuire, è aumentato vertiginosamente, soprattutto nella sua componente privata legata alla variabile azionaria.

La maggior parte di tale debito è stata creata dal settore corporate non bancario che ora – con la distruzione delle catene di offerta e del valore provocata dal coronavirus – si trova in difficoltà a pagarne il servizio relativo, il che genera la stranissima situazione di una paradossale coesistenza di bassi tassi di interesse e di credit crunch. Ma quel che è peggio è che tale maggior debito è stato generato mediante metodi che ne hanno vertiginosamente accresciuta la rischiosità, poiché la sua emissione è prevalentemente avvenuta attraverso corporate bond con rating speculativo e con minore protezione contrattuale, di cui hanno fatto incetta l’universo del risparmio gestito e i fondi di investimento, meno vincolati dalle regole prudenziali a cui sono state sottoposte le banche. Si tratta di rischi che il sistema finanziario globale viene incubando da decenni – dalla crisi della metà degli anni ’70 del Novecento, alla successiva crisi latinoamericana, fino ai più recenti sconvolgimenti della dot-com dei primi 2000 e dei subprime del 2007 – rischi sistematicamente mis-priced (erroneamente prezzati), con il risultato di aver dato vita a uno stock di titoli che oggi presenta bassa qualità di credito, maturità molto lunghe, scarsa protezione contrattuale. Le cose acquistano una luce ancor più preoccupante se consideriamo che gran parte di questo debito è andata a finanziare quelle operazioni di mergers and acquisitions e stock buybacks con cui i top managers alimentano i loro guadagni.

Ma il dispositivo degli stock buybacks – con cui le imprese vendono e ricomprano freneticamente le loro azioni per farne salire il valore, così da remunerare al rialzo i propri manager – non diversamente dagli incentivi non salariali ai manager, come la remunerazione attraverso l’erogazione di stock options, sono proprio quelli che alimentano lo shortermismo e deprimono la spinta ad investire in capacità produttiva reale e in innovazione. Tutto ciò ci dice che non è più rinviabile il compito di affrontare in modo non retorico le problematiche della «democrazia economica», di nuovi rapporti capitale/lavoro. E ci dice che un intervento pubblico «innovatore» è oggi urgente per rilanciare gli investimenti e creare direttamente di lavoro È arrivato il momento di fare cose draconiane, del tipo «vietare gli stock buybacks», secondo la proposta di Lazonick, «rivedere radicalmente la struttura degli incentivi ai manager» (tra l’altro non consentendo la vendita a breve delle stock options), abolire le misure permissive (come permettere di contabilizzare nei bilanci annuali dei fondi utili futuri altamente incerti) adottate anche da soggetti quali la Banca dei Regolamenti Internazionali. La storia ci dice che l’unico periodo in cui non abbiamo conosciuto crisi finanziarie gravi è stato quello tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del Novecento, quando al crack del 1929 la risposta pubblica, in primo luogo di Roosevelt, fu nettissima e per questo risolutiva.

Oggi scontiamo gli esiti della ostilità allo Stato, la deregolamentazione, le privatizzazioni predicate dalla fine degli anni ‘70 dal neoliberismo. Ma chi invoca un intervento pubblico «innovatore» resta sconcertato di fronte alle cautele e alle reticenze italiane. Resta, per esempio, sconcertato di fronte al fatto che, a differenza che in Danimarca, in Francia, in Germania e altrove, da noi, anche quando il contenimento della pandemia sembra almeno parzialmente riuscito, l’ipotesi di riaprire le scuole prima dell’estate non viene presa nemmeno in considerazione.

Perché una simile discrepanza? Il punto è che il depotenziamento della pubblica amministrazione durante i decenni dell’egemonia neoliberista è stato in Italia, già minata da una inaudita evasione fiscale, maggiori che altrove. L’imponente arretramento dello Stato si è risolto in un prosciugamento delle sue energie. Lo starving the beast di bushiana memoria – concretizzatosi in tagli delle tasse a vantaggio dei ricchi e ulteriore contrazione delle entrate pubbliche – ha talmente affamato la «bestia governativa» da averla quasi tramortita. Così abbiamo un contesto governativo-amministrativo generale in cui si manifesta una riluttanza a intervenire con misure strutturali e una preferenza verso politiche indirette, quali contare sulla liquidità creata dalle Banche centrali, mobilitare le banche contro il credit crunch, fornire garanzie pubbliche ai prestiti bancari, consentire di rinviare le scadenze dei pagamenti, erogare a imprese e famiglie bonus, aiuti, sostegni di varia natura, in una parola soprattutto trasferimenti monetari i cui effetti immediati – al netto di imperdonabili lungaggini e intoppi burocratici – sono nell’emergenza indubbiamente sacrosanti. Tuttavia, non ci si può esimere dal sollevare il seguente interrogativo. Di fronte alla devastazione pandemica bastano politiche monetarie pur straordinarie agenti soprattutto sulla liquidità e politiche di spesa pubblica sostanzialmente basate sui trasferimenti monetari?

Nel decennio di bassi tassi di interesse successivo all’esplosione della crisi finanziaria e produttiva del 2007/2008 l’Italia e il mondo sono stati inondati di denaro a buon mercato senza che si riuscisse a far ripartire gli investimenti. Proprio colpiti da questa «problematicità del processo di investimento», come Forum Economia nazionale della Cgil fin dal 2013 lanciammo un Piano del lavoro ponendo come questioni cruciali a) la creazione di lavoro, b) gli investimenti, senza esitare a immaginare di fare ricorso allo Stato come «employer of last resort» secondo le ipotesi di Minsky, Meade, Atkinson.

Tanto più oggi questa è la strada da aprire con assoluta urgenza, se non vogliamo che, una volta che l’epidemia sarà stata domata, tutto riparta business as usual, con l’unica variante

Dovremo, infatti, 1) fronteggiare problemi di disoccupazione elevata e di carenza di lavoro, 2) cambiare radicalmente il modello di sviluppo, dando la priorità alla riconversione ecologica, alla domanda interna, ai consumi collettivi e ai bisogni sociali insoddisfatti: salute, scuola, università, ricerca, riqualificazione dei territori, nuova agricoltura, rigenerazione urbana, beni culturali, cura, tempo libero, innovazione sociale. Dunque, urgentemente bisogna a) identificare delle «missioni», b) avere dei soggetti a cui affidare le «missioni» e dei «progetti» in cui calarle. Se l’eredità più pesante del neoliberismo è il depauperamento anche progettuale della nostra Pubblica Amministrazione, non possiamo rassegnarci a questa situazione, ricorrendo solo a trasferimenti monetari i quali, necessarissimi nell’emergenza e quando le difficoltà non siano altrimenti aggredibili come nel caso della povertà, hanno comunque un valore «compensatorio» non «promozionale» e non sono in grado di agire sulle strutture e di cambiare il modello di sviluppo. Dunque, è qui che dobbiamo concentrare tutte le nostre energie ideative: ricostruire, anche in forme inedite, la «capacità progettuale» dello Stato e della pubblica amministrazione, in tutte le sue accezioni, soprattutto locali, e senza escludere di poter utilizzare istituti esistenti ancora nel nostro ordinamento, come l’impresa a partecipazione statale. Ma abbiamo innanzitutto bisogno di identificare un luogo in cui accumulare uno «stock di progetti» ampiamente articolato, suscettibile di usi plurimi, utilizzante diverse energie intellettuali, a partire da quelle universitarie. Lo strumento dell’Agenzia sembrerebbe particolarmente appropriato, dato la sforzo di inventiva, di creatività, di creazione dal nulla che sarebbe necessario, proprio come fece Roosevelt con il New Deal per cui inventò tante istituzioni, tra cui i Job Corps, le Brigate del lavoro. Se lavori e attività diversi vanno creati, mobilitati, messi insieme, ci vogliono «progetti», tanti, in molte aree, interdisciplinarmente costruiti. Per la riqualificazione dei territori, per esempio, debbono operare congiuntamente urbanisti, architetti, archeologi, biologi, operatori sociali, geologi (una volta ogni comune ne aveva almeno uno, oggi sono stati tutti tagliati e le Università chiudono le facoltà di geologia, ma intanto le nostre montagne franano alla prima pioggia…).

Nelle grandi città – pensiamo a Roma e alle famose «buche» di cui è disseminata – si dovrebbe subito dar vita a progetti di manutenzione viaria e infrastrutturale straordinaria (anche tenendo conto che in simili opere il distanziamento sociale è facile da realizzare). Nella scuola e nell’Università c’è una caterva di cose da fare molte delle quali subito (dando risorse e autonomia ai plessi, i presidi, i dirigenti scolastici), a partire dalla riqualificazione dell’edilizia scolastica, dove due edifici su tre hanno più di trenta anni e di cui solo il 22% è stato ristrutturato, mille scuole sono state costruite nell’Ottocento e più di tremila tra la fine del 1800 e il 1920, di quasi settemila edifici non si conosce neanche la data di costruzione. Un altro campo di azione immediata sono le case popolari (dove vivono 800 mila persone, con altre 600 mila in attesa di averne una), il cui rinnovamento potrebbe trasformare le nostre periferie, dare speranza ai giovani, creare nuove comunità, muovere maestranze a livello locale. E gli esempi potrebbero continuare, dall’efficienza energetica, agli interventi antisismici, al recupero delle aree interne, alla valorizzazione dei beni culturali e di tutte le attività di «cura», a un’agricoltura più sana e meno intensiva (che spezzi anche la catena di trasmissione dei virus dagli animali agli uomini).

 

Laura Pennacchi, studiosa e saggista nei campi delle scienze economiche e sociali, dirige la scuola per la buona politica «Vivere la democrazia, costruire la sfera pubblica» della Fondazione Basso. È stata parlamentare per tre legislature (dalla XII alla XIV) e sottosegretario, con Ciampi, al Tesoro nel primo Governo Prodi.

 

 

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