Le classi sociali più basse sono più esposte al coronavirus e ne subiscono le conseguenze più gravi. È una disuguaglianza di salute socialmente determinata e, finita l’emergenza, si dovrà pensare a risolverla. Chiamando in causa il Servizio sanitario.
L’esposizione al Covid-19 non è uguale per tutti
L’epidemia di coronavirus crea drammatici problemi, che si cerca di affrontare in questi giorni. Ma riporta anche in primo piano il tema delle disuguaglianze socialmente fondate di salute. Risolverle ora non è possibile, ma su di esse occorrerà ritornare non appena la crisi sarà superata se si vuole che il diritto costituzionale al godimento di una buona condizione di salute sia davvero tutelato per tutti e qualora si verificassero nuovi eventi epidemici.
È certamente vero che Covid-19 genera lutti ovunque, in Italia in particolare tra gli anziani, e che tutti questi lutti devono essere egualmente pianti.Non è però vero che, a parità di età, i vari gruppi sociali siano esposti nella stessa misura all’epidemia (così come ad altre analoghe infezioni) e siano ugualmente vulnerabili alle sue conseguenze più letali.
Iniziamo dalla questione dell’esposizione a Covid-19. Quanti svolgono ruoli dirigenziali e di stampo intellettuale (medici a parte), assieme alla stragrande maggioranza dei colletti bianchi (tecnici ospedalieri e personale infermieristico esclusi), possono effettuare il proprio lavoro a casa e, comunque, in ambiente protetto. Non è così per un numero non marginale di componenti delle classi operaie, soprattutto quelli con rapporti precari di impiego che lavorano in microimprese a basso livello di sindacalizzazione. Per molti versi, la maggiore esposizione di tutti costoro al contagio si configura come una conseguenza, forse ineliminabile, della divisione sociale e tecnica del lavoro e della configurazione della struttura produttiva italiana. Ma ciò che qui importa sottolineare è il fatto che i livelli della loro tutela dal contagio rischiano di essere non pienamente adeguati sia per le difficoltà di reperire i necessari presidi di protezione, sia per un mancato – e forse anche non facile da realizzare – innalzamento dei livelli di vigilanza sull’esposizione al virus nelle singole situazioni lavorative.
Una preoccupazione simile vale per la disuguale vulnerabilità alle conseguenze più gravi del contagio. Sappiamo che la presenza di malattie croniche predispone a esiti particolarmente negativi dell’infezione da Covid-19 e sappiamo che, a parità di altre condizioni, la loro presenza cresce progressivamente all’abbassarsi della posizione sociale. Per esempio, a Torino nel 2018, a sesso ed età identici, le persone con diabete di tipo 2 (una delle malattie croniche fortemente predisponenti per un esito infausto del contagio) ammontavano al 4,5 per cento dei laureati e al 13 per cento dei soggetti con la scuola dell’obbligo. Altrettanto disuguale è la distribuzione delle altre malattie croniche bersaglio delle forme letali di Covid-19, come la broncopneumopatia cronico ostruttiva, la cardiopatia ischemica, la vasculopatia cerebrale, lo scompenso cardiaco. Anche per questa seconda ragione crediamo che, quando tutto sarà finito, si vedrà che l’infezione, lungi dall’operare in modi egualitari, avrà inciso, in termini di contagi e ancor più di decessi, in misura proporzionalmente maggiore negli strati sociali inferiori.
Se la disuguale esposizione al contagio è imputabile, principalmente, ai modi della divisione sociale del lavoro, può essere moderata solo da adeguate misure organizzative e individuali di protezione. Quanto alla disuguale vulnerabilità, occorre ricordare che le persone di bassa posizione sociale subiscono conseguenze più severe del contagio sia perché si ammalano più frequentemente di malattie croniche (a causa di maggiore esposizione nel passato a fattori di rischio ambientali, lavorativi, voluttuari e psicosociali), sia perché si aggravano più in fretta perché sono meno in grado di avvantaggiarsi delle cure disponibili. Ammalarsi in modo disuguale chiama in causa, dunque, le politiche educative, del lavoro, di welfare e ambientali, ma, almeno per quanto attiene a gestioni disuguali della malattia, anche il Sistema sanitario nazionale.
I problemi del Sistema sanitario nazionale
Di recente, e con intensità cresciuta negli ultimi giorni, si è sostenuto che le difficoltà nelle quali si trova il Ssn sono dovute alle politiche di austerità che ne avrebbero ridotto le capacità d’intervento. Sono politiche seguite da tutti i governi nazionali e regionali a partire dal 2008, con una parziale correzione di rotta nell’ultima finanziaria. In effetti, rispetto al naturale tasso di crescita del suo fabbisogno di finanziamento (invecchiamento della popolazione e nuove possibilità di cura), il fondo sanitario nazionale è cresciuto solo per recuperare un po’ d’inflazione, cioè di un ordine di grandezza in meno di quanto avrebbe dovuto crescere. E questo ha comportato il ricorso crescente a forme anche incisive di “efficientamento” dell’offerta di strutture, di personale e di mezzi. Fortunatamente non c’erano stati finora indizi che il processo avesse provocato danni evidenti sui livelli essenziali di assistenza e sui loro esiti epidemiologici nel breve periodo. D’altro canto, lo sforzo di razionalizzazione della sanità per partecipare al risanamento del bilancio pubblico ha seguito il principio di ricalibrare l’offerta sul solo fabbisogno ordinario. E dunque in condizioni straordinarie di domanda, il Ssn si dimostrerebbe incapace di reagire. In effetti, campanelli di allarme se ne erano già visti negli ultimi anni – ma fortunatamente di gravità minore e solo per brevi intervalli – per esempio durante le emergenze delle stagioni influenzali, quando i corridoi dei nostri pronto soccorso si riempivano di barelle per i malati che non trovavano un posto letto. Ma questo è diventato il punto debole del Ssn: gravi limiti di resilienza del sistema agli shock di domanda, con conseguenze fortemente disuguali sulla salute degli italiani.
Quando la fase dell’emergenza sarà superata, occorrerà, dunque, mettere mano a questa impostazione. L’efficientamento del Ssn deve sì continuare, ma deve essere pronto ad affrontare shock di domanda importanti, come quelli legati a epidemie per le quali non abbiamo a disposizione scudi vaccinali protettivi. Si tratta, infatti, di eventi non così infrequenti. Basti ricordare che negli ultimi vent’anni ci hanno visitato la Sars, l’influenza suina, quella aviaria e la Mers, tutte epidemie nuove che fortunatamente sono state, a turno, o meno gravi o meno contagiose della Covid-19, risparmiandoci lo shock di domanda e i lutti, ma che avrebbero potuto esserlo.
Ricalibrare su queste necessità la capacità di offerta sanitaria dei nostri territori permetterà anche di garantire meglio l’equità nello stato di salute, perché di essa sapranno avvantaggiarsi di più le classi sociali inferiori che sono più vulnerabili alle conseguenze della pandemia. Ma per raggiungere pienamente quel risultato sarà anche necessario che il Ssn sappia prestare maggiori attenzioni, in epoche “normali” ai differenziali di rischio di malattia, di limitazioni funzionali e di sofferenza esistenti tra i vari strati sociali della popolazione, perché la maggiore vulnerabilità non è una regola genetica, è socialmente determinata e può essere modificata da una sanità di iniziativa più attenta alle disuguaglianze sociali.