Rosy Bindi è stata ministra della Sanità dal 1996 al 2000 nei governi Prodi e D’Alema. Parlamentare dal 1994 al 2018, ha militato nel Partito popolare, nella Margherita e infine nel Partito democratico. Una delle riforme della storia del Servizio sanitario nazionale, quella del 1999, porta il suo nome. L’emergenza Covid-19 ci ha mostrato quanto sia importante il Ssn.
Secondo lei, quali sono i pilastri irrinunciabili del sistema?
«Il primo è l’universalità: l’uguaglianza vera di fronte a un bene fondamentale della persona come è quello della salute e che è anche interesse della comunità. Se non c’è la salute non ci sono lavoro, socialità, sviluppo… Salute non significa solo cure in ospedale ma presa in carico globale della persona. Quindi servizi territoriali, domiciliari, prevenzione… Secondo: il finanziamento adeguato, garantito secondo principi di equità e solidarietà. Non è vero che i servizi universalistici costano più degli altri. La sanità americana è complessivamente molto più costosa della nostra e molto meno solidale e giusta. Terzo: il personale. Per l’efficacia e l’appropriatezza delle cure servono buoni medici e buoni infermieri in numero giusto. Quarto: l’uniformità dei servizi nei territori. L’Italia spezzata in tante realtà regionali ha pagato un prezzo troppo alto».
È stato un errore decentralizzare la gestione della salute alle Regioni?
«Il problema non è il Titolo V della Costituzione ma la “costituzione materiale”, la prassi di gestione che ha smentito i principi di uguaglianza e dell’uniformità. Bisognerà rendere più stringente il ruolo di garanzia del Governo centrale che, senza imporre, deve armonizzare gli interventi. E gli attori del sistema devono essere disponibili alla concertazione non solo nella ripartizione delle risorse. Di fronte alla sfida globale della pandemia assistiamo a un fai da te inaccettabile».
Non paghiamo anche l’eccessiva presenza di privati nel sistema?
«C’è un paradosso: abbiamo un sistema pubblico per definizione con una parte enorme di privato. I medici di famiglia sono liberi professionisti convenzionati, sono privati la stragrande maggioranza delle farmacie, le industrie farmaceutiche ed elettromedicali, i fornitori degli ospedali… Poi abbiamo una percentuale, variabile da Regione a Regione, di erogatori privati di prestazioni (diagnostica, cliniche, riabilitazione…). Tutti questi imprenditori, legittimamente, fanno profitto ma quel profitto non deve essere pagato dal “bene salute”. Quindi occorrono regole molto rigorose e un modello organizzativo che sappia tenere sotto controllo tutto questo».
Come?
«Laddove è stata applicata la riforma che ho promosso da ministro, il privato non è diventato condizionante del sistema pubblico ma è stato integrato. Il “modello lombardo” di Formigoni, seguito parzialmente da altre Regioni, ha invece esasperato la “competizione” per la conquista di maggiori quote di mercato che nei sistemi a finanziamento pubblico solidale non è a lungo sopportabile. Effetto: aumento del debito, consumismo sanitario e più spesa privata a carico dei cittadini. In alcune Regioni del sud, ma non solo, quella è anche una porta d’entrata per il malaffare mafioso».
Meriti e mancanze dei politici cattolici nella costruzione dell’attuale sistema?
«La Legge 833 del 1978, del ministro dc Tina Anselmi con il grande contributo di Giovanni Berlinguer, del Pci, concretizza ciò che dice la Costituzione grazie al pensiero cattolico-democratico: la salute è un diritto fondamentale della persona. Vent’anni dopo, il governo Prodi ha aggiornato il Ssn e corretto la controriforma liberista del ministro De Lorenzo (1992). Poi i governi di centrodestra non hanno tutelato le coerenze del sistema. Infine, negli anni della crisi finanziaria, sbagliando, tutto il sistema pubblico è stato sottofinanziato, con particolare accanimento su ciò che andava difeso e rilanciato: la salute e la scuola. Hanno ceduto in questo senso anche i governi in cui la presenza cattolico-democratica era ancora forte. Il risultato odierno, spero, insegnerà molte cose a tanti».
Quale contributo ha portato il mondo cattolico con le sue opere assistenziali, cliniche e ospedali?
«Il pensiero ispiratore delle opere cattoliche è stato preziosissimo per la salute del Paese, ha fatto scuola in molti ambiti e tante di queste strutture oggi sono coessenziali al sistema secondo il principio della sussidiarietà. Qualche volta, però, in nome della carità le opere cattoliche rischiano di dimenticare la giustizia: è un’antica debolezza. Perciò i criteri per l’accreditamento non devono fare sconti a nessuno. E, aggiungo, le cliniche cattoliche devono avere una loro peculiarità nel sistema: non possono essere una replica di ciò che già esiste. Tradirebbero il carisma originario. La Chiesa non ha interessi propri: l’unico interesse è il bene dell’umanità».