Nella Regione Marche è stato deciso di realizzare una struttura dedicata ad una attività di terapia intensiva (TI) e semiintensiva (SI) all’interno degli spazi di una Fiera a Civitanova Marche. La struttura, d’ora in poi FH (Fiera Hospital) è stata inizialmente prevista per fronteggiare un temuto picco epidemico a metà aprile, poi si è trasformata in una struttura di 42 posti letto di destinata a “svuotare” dai residui casi di COVID-19 con i suoi 42 posti letto di TI e 42 di SI. La struttura (finanziata per circa 12 milioni di euro da privati con 5 milioni che erano comunque stati dati dalla Banca d’Italia alla Regione Marche) rimarrà a disposizione per eventuali future recrudescenze epidemiche.
Molti gli aspetti controversi di questa scelta tra cui si segnala:
- l’avvio senza una preliminare valutazione e ridisegno delle rete delle terapie intensive in applicazione del Decreto Cura Italia che pure lo prevede sin dalla sua edizione del 18 marzo;
- il ricorso a personale non specializzato e non abituato a lavorare in equipe;
- la assenza dei collegamenti strutturali, organizzativi e funzionali all’interno di un “vero” ospedale;
- la previsione come definitiva di una struttura temporanea non autorizzabile;
- la partnership con il dott. Guido Bertolaso e il Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta.
Con questa nota si vuole affrontare il tema del criterio utilizzato (se un criterio c’è stato) per individuare come investimento prioritario quello destinato al FH, unico Progetto di fatto avviato dalla Regione Marche per la gestione di questa Fase 2.
Partiamo da un dato molto significativo e doloroso, quello dei decessi per coronavirus nella Regione Marche arrivati ieri a 943. Sappiamo dalle elaborazioni fatte dall’ISTAT assieme all’Istituto Superiore di Sanità che dove l’epidemia da COVID-19 colpisce la mortalità che ne deriva è molto superiore a quella “ufficialmente” attribuita al coronavirus. Ad esempio nella Provincia di Pesaro-Urbino nel mese di marzo 2020 c’è stato un aumento complessivo della mortalità del 120%. Per dare un equivalente a questa percentuale in Provincia di Pesaro-Urbino ci sono stati tra il 20 febbraio e il 31 marzo di quest’anno 912 decessi contro i 454 della media del quinquennio 2015-2019. E solo 157 di questi decessi è stato “ufficialmente” in questa Provincia attribuito al Covid nelle statistiche ISTAT (283 secondo il GORES). Quindi ad ogni decesso attribuito al COVID-19 ne corrisponde almeno un altro che può essergli direttamente o indirettamente attribuito. I decessi “in più” sono o COVID-19 non diagnosticati, o decessi per complicanze di patologie pregresse che il coronavirus ha fatto precipitare o decessi per cure mancate perché in questo periodo tutto il sistema sanitario “è saltato”. Nelle Marche quindi sono circa 2000 i decessi potenzialmente attribuibili alla epidemia.
Quali sono gli strumenti con cui ridurre questo enorme carico di sofferenze e di costi sociali incalcolabili? Sono numerosi, ma si possono far rientrare in tre grandi categorie:
- gli interventi finalizzati a ridurre il numero dei contagi con misure di prevenzione;
- gli interventi finalizzati a anticipare la diagnosi e il trattamento;
- gli interventi finalizzati a migliorare l’efficacia del trattamento in caso di ricovero attraverso il potenziamento delle terapie intensive.
Vediamo più in dettaglio le misure di prevenzione che si articolano nei seguenti interventi:
- dotarsi di una funzione epidemiologica strutturata che analizzi i dati (sierologici, microbiologici e clinici) e identifichi i fenomeni emergenti significativi;
- modulare i provvedimenti per il “distanziamento sociale” sulla base di questi dati;
- potenziare le attività di identificazione dei contatti dei soggetti positivi al tampone;
- procedere ad idonee misure di quarantena anche con strutture ad hoc requisite;
- potenziare le attività di screening mirato in categorie a rischio;
- innalzare gli standard organizzativi ed assistenziali delle strutture socio-sanitarie, residenze protette e strutture residenziali in generale;
- fare progetti mirati su gruppi e comunità a rischio (carceri ad esempio);
- potenziare le attività di gestione domiciliare dei casi;
- rendere gli ospedali e le altre strutture sanitarie sicure per i pazienti e gli operatori;
- informare ed educare i cittadini e gli operatori.
Quanto alle misure finalizzate alla gestione proattiva e anticipata dei casi essa richiede di:
- potenziare le attività di gestione domiciliare dei casi;
- tutelare meglio a domicilio le persone con malattie croniche in modo da evitare loro l’aggravarsi della loro condizione.
Nel loro complesso queste attività territoriali da svolgersi attraverso i Dipartimenti di Prevenzione e i Servizi distrettuali sembrano capaci di un impatto molto importante: riducono il numero di nuovi casi, migliorano la prognosi di quelli che comunque si verificano e riavviano il sistema di presa in carico delle cronicità completamente saltato in occasione della epidemia. Non è un caso che da più parti autorevolmente si è sottolineato che la battaglia contro il coronavirus si vince sul territorio. Prendiamo due riferimenti tra i tanti.
Cominciamo dalla lettera pubblicata il 1 marzo sul British Medical Journal (diffusa poi in Italia tra l’altro anche da Quotidiano Sanità) con primo firmatario il dott. Filippo Anelli Presidente della FNOMCEO. Dal Quotidiano Sanità viene ripreso questo stralcio:
In particolare abbiamo voluto sottolineare l’inadeguatezza del modello ospedalo-centrico per far fronte ad epidemie di questa portata, com’è diventato evidente dopo la chiusura di interi ospedali in Italia per la diffusione dell’infezione tra medici, infermieri e pazienti. Errore fatale è stato e in taluni casi rischia di continuare ad essere l’assenza di percorsi dedicati esclusivamente al Coronavirus quanto ad accesso, diagnostica, posti letto e operatori sanitari. Inoltre, va chiarito che nessuna epidemia si controlla con gli ospedali, come si è forse erroneamente immaginato: è sul territorio che va espletata l’identificazione dei casi con test affidabili ma anche con rapidi kit di screening e la sorveglianza con la tracciabilità dei contatti, il monitoraggio e l’isolamento.
Passiamo all’appello di un gruppo di medici di Bergamo (impegnati in prima linea dentro l’ospedale) pubblicato sul New England Journal of Medicine Catalyst (diffuso in Italia anche tramite Il Foglio). Anche qui uno stralcio dall’articolo del giornale:
Detto in altre parole e molto chiaramente: questa non è come è stata spesso descritta una crisi della terapia intensiva, ma “una crisi di salute pubblica e umanitaria. E per questo bisogna muoversi esattamente nella direzione opposta di quella intrapresa finora.
Primo: al contrario di concentrare i pazienti negli ospedali, bisogna puntare su tutti gli strumenti e le tecnologie che permettono di aumentare le cure domiciliari, dalla nutrizione all’ossigenoterapia, e rendere più flessibile l’assistenza per esempio con il ricorso alle cliniche mobili e la telemedicina.
Ma i dottori di Bergamo vanno anche oltre, e qui veniamo al secondo punto che emerge dall’appello: “bisogna assistere l’intera popolazione perché questa è una crisi che investe la collettività. I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità”, spiegano e denunciano chiaramente che questa consapevolezza è completamente mancata.
Passando alla terza linea di intervento, l’investimento prioritario sulla struttura di Civitanova Marche in termini di sanità pubblica non è razionale: i suoi posti letto in caso di recrudescenza epidemica non basteranno mai, sarà difficile farli funzionare bene, avranno comunque una alta mortalità (come i dati della Lombardia ben evidenziano). Si tratta della risposta in assoluto col peggior rapporto tra risorse investite (tante) e risultati di salute attesi (ridotti).
Sarebbe stato il caso di discuterne.
Claudio Maffei medico igienista in pensione
fonte: https://francopesaresi.blogspot.com/2020/05/il-fiera-hospital-di-civitanova-marche.html