Siamo ormai entrati nella fase 2, quella in cui inizia la ricostruzione. Il coronavirus è un nemico invisibile che ci ha privati della libertà e che ci ha resi ancora più diseguali. Anche più diseguali fra uomini e donne. La ripartenza deve trasformarsi in una occasione per rafforzare i diritti delle donne e non per farli arretrare. E per questo dobbiamo tener conto di alcuni aspetti.
Il primo è che qualunque misura si decida di mettere in atto tendenzialmente non è neutra, e ha ricadute di genere. Che lo vogliamo o no. Se non si tiene conto dell’impatto anche da un punto di vista di genere delle politiche, uomini e donne inevitabilmente otterranno benefici ineguali dai loro effetti.
Le politiche dei governi, non solo nel nostro Paese, sono state spesso gender blind , cieche dal punto di vista del genere, nel senso che non si sono basate su una reale valutazione di impatto delle misure adottate in ottica di genere. Ciò ha comportato una non adeguata valorizzazione delle potenzialità femminili e effetti inattesi e non considerati di aumento delle disuguaglianze di genere.
Pensiamo allo smart working . Se possiamo dire di aver appurato in modo definitivo che lo smart working , quale forma di flessibilità del lavoro, non significa che lavorare da casa permetta di lavorare di meno, ma semmai di più, abbiamo anche sperimentato che quello “involontario” penalizza le donne, invece di aiutarle. Per le donne italiane, che sono sovraccariche di lavoro di cura, lo smart working inteso come lavoro flessibile, che si alterna con la presenza “fisica” sul lavoro può essere una grande opportunità. Permette di liberare tempo per sé e vivere una vita meno stressata, soprattutto in presenza di figli. E non solo per loro. Le lavoratrici che hanno figli non sono poche, 3 milioni quelle con figli con meno di 14 anni, di cui 1 milione 300 mila quelle con figli fino a 5 anni. Purtroppo però lo smart working messo in atto in questi giorni non è flessibile, è forzato necessariamente.
E questo crea un problema per le donne. Prima il lavoro di cura si sommava al lavoro extradomestico, ma ciò avveniva in parti della giornata generalmente non sovrapposte. Ora tempi di lavoro e tempi di cura sono completamente sovrapposti. Questo vuol dire che non si sarebbe dovuto usare lo smart working ? Assolutamente no. Siamo in emergenza. In tanti abbiamo imparato ad usarlo e ciò sarà estremamente utile per il futuro. Vuol dire però che dobbiamo essere coscienti delle conseguenze di questa scelta per intervenire con altre misure che ne correggano gli effetti indesiderati. Per esempio, dobbiamo capire che non potrà protrarsi troppo a lungo, se insieme si protrae anche la presenza dei figli e magari marito in casa. Già le donne che interrompono il lavoro dopo la nascita del figlio sono il 20 per cento. A quanto vogliamo arrivare? E non pensiamo che si debbano ridisegnare proprio ora, una volta per tutte, i tempi e spazi della vita quotidiana, nell’organizzazione delle città, tematica assai cara alle donne negli anni ’90?
C’è un secondo aspetto da considerare. Le misure dell’oggi non possono essere rivolte solo alla seconda fase, devono porsi l’obiettivo di ridurre decisamente le disuguaglianze di genere in futuro. E se non lo progettiamo ora, ciò non avverrà mai, perché non abbiamo mai avuto a disposizione una cifra consistente, come quella di cui si parla oggi, né una tale possibilità di
progettazione economico-sociale. Bisogna puntare da subito a rimuovere l’ostacolo fondamentale alla piena realizzazione delle risorse femminili e in particolare quel sovraccarico di lavoro familiare dovuto allo scarso investimento in infrastrutture sociali e in politiche di conciliazione che ha sempre caratterizzato il nostro Paese e ha fatto delle donne il pilastro fondamentale del nostro sistema di welfare. La sfida è aperta. Possiamo raccoglierla o no. Certo è che se non lo faremo avremo perso l’ennesima occasione per fare un vero salto di qualità nella realizzazione dei diritti delle donne e della libertà femminile.
fonte: LA REPUBBLICA – 6 MAGGIO 2020