“Stare in casa” significa una costrizione insopportabile per il 41% dei bambini e ragazzi che vive in abitazioni sovraffollate, con disagi che spesso si sommano ad altri.
Non siamo uguali neppure di fronte alla perdita di reddito e al rischio di povertà provocati dalla chiusura di gran parte delle attività produttive.
Qui le disuguaglianze sono molteplici.
I più a rischio sono i giovani, vuoi perché avevano più spesso contratti temporanei o precari, vuoi perché stavano per entrare nel mercato del lavoro quando tutto si è chiuso. Come era già successo con la lunga crisi finanziaria iniziata nel 2008 e non ancora conclusa, sono le generazioni più giovani le più colpite e quelle che porteranno più a lungo le ferite. Sono più a rischio di non rientrare al lavoro le donne degli uomini, perché l’apertura selettiva delle attività produttive riguarda settori a prevalenza maschile e perché la persistente chiusura dei servizi sociali, educativi e delle scuole pone molte lavoratrici di fronte alla antica necessità di decidere tra lavorare fuori casa o rimanere a casa senza stipendio.
Ma sono anche più a rischio molte categorie di lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti (a tempo indeterminato) e, tra questi, più quelli nel settore privato che nel pubblico. A più rischio di tutti sono coloro che lavoravano solo nell’economia informale, non per vocazione all’evasione fiscale, ma per mancanza di alternative.
Il lockdown , lungi dall’aver ridotto le disuguaglianze, le ha allargate, aggiungendovene di nuove come paradossale, ma non inaspettata, conseguenza di scelte pubbliche per fronteggiare la pandemia. Il forte aumento della povertà assoluta — quella che comporta l’impossibilità di mettere insieme il pranzo con la cena, di far fronte alle bollette, all’affitto — e le caratteristiche dei “nuovi poveri”, evidenziati da osservatori come la Caritas e altri soggetti che in queste settimane hanno cercato di fronteggiarla, mostrano quanto incidano queste molteplici disuguaglianze.
Rendono ancora più inaccettabile il ritardo con cui gli aiuti sono programmati e ancora di più resi effettivamente disponibili, la loro frammentazione categoriale che continua a distinguere tra più, meno o affatto “meritevoli” di aiuto, nonostante non vi sia alcuna responsabilità individuale in quanto è accaduto e anzi i singoli sono letteralmente impotenti di fronte alle decisioni prese in nome della sicurezza collettiva.
Il vizio tutto italiano di fare graduatorie tra i poveri e di considerarli come persone tendenzialmente inaffidabili, quando non pigre — che ha dato il peggio di sé nel dibattito sul Reddito di cittadinanza — continua a fare danni anche oggi, quando la povertà è chiaramente prodotta da circostanze al di fuori del controllo individuale e per decisione dell’autorità pubblica in nome del bene collettivo. Emerge nel dibattito attorno al Rem, a chi darlo, a come distinguerne i beneficiari da quelli del Reddito di cittadinanza. Ma riguarda anche la puntigliosa distinzione tra chi ha diritto a quale tipo di sostegno, in base non al
bisogno, ma alla categoria di appartenenza. Intanto le file alla Caritas e agli altri centri di aiuto si allungano e, insieme alle disuguaglianze, aumenta il malcontento.
fonte: LA REPUBBLICA – 4 MAGGIO 2020