Tra la tanta retorica che la pandemia si trascina dietro, come una fastidiosa irritazione cutanea, c’è anche quella che invita a trovare nella tragedia il senso di un’opportunità. Giusto, per una volta. E dal momento che la tragedia è grande, anche la capacità di rintracciarvi vie di scampo e percorsi di rinnovamento dev’essere della stessa misura. Si ha la sensazione, insomma, che non è tempo di piccola manutenzione e modeste riparazioni.
Serve molto di più, perché la posta in gioco non è il ripristino di ciò che precedeva il disastro — sarebbe come riprodurlo all’infinito — bensì la sperimentazione di qualcosa di nuovo. Nella politica dell’immigrazione, per esempio. Qui, a parere di molti, è necessaria una strategia di regolarizzazione dei lavoratori stranieri non regolari: in particolare, di quelli occupati nell’attività domestica e nel lavoro agricolo.
Gli effetti del Covid 19, su questi due settori, già sono rovinosi: un calo significativo del numero degli occupati, scoraggiati dal timore del contagio e dall’intensificazione dei controlli delle forze di polizia. Il che ha portato molti irregolari a ritirarsi all’interno dei ghetti urbani e delle baraccopoli nelle campagne, in uno stato di più serrata clandestinità.
Parallelamente, le conseguenze del Covid 19 si avvertono su quel welfare informale costituito da babysitter, collaboratrici domestiche e badanti irregolari o solo parzialmente regolari, che rappresenta un’essenziale modalità di coesione sociale. Non solo una risorsa assistenziale a basso costo, ma anche un fattore significativo delle reti di protezione per alcune categorie particolarmente fragili. Si parla molto in queste settimane dei vecchi e, per malinconico paradosso, mentre qualcuno ne progettava la segregazione, se ne cancellava — per un soprassalto di verecondia — il nome, ricorrendo a quello più innocuo e “sanificato” di anziani.
Ma abbiamo un’idea di come questo amplissimo strato di popolazione (circa il 23% del totale) viva la propria età, il deperimento fisico, lo smarrimento cognitivo, la povertà relazionale? E le persone chiamate a “badare” loro, che ruolo effettivamente svolgono? Quel badare assicura, in un numero rilevante di circostanze, l’aiuto e la cura, la sollecitudine e il pronto soccorso, la compagnia e la voce che risponde a una domanda spesso senza ascolto. È un pezzo di welfare e di legame sociale irrinunciabile, pena un ulteriore processo di desertificazione di “mondi vitali” sempre più vulnerabili. Processi non troppo dissimili si verificano in altre aree del Paese. Gli addetti all’agricoltura sono un milione e centomila, dei quali il 35% è costituito da stranieri; a ciò si aggiunge un’ampia quota di lavoro nero super sfruttato e sottopagato. Ora il blocco delle frontiere impedisce l’arrivo di decine di migliaia di lavoratori stagionali; una parte dei prodotti non viene raccolta e non raggiunge il circuito commerciale e le tavole degli italiani; e l’epidemia induce i lavoratori irregolari a una più rigida clandestinità, incrementando i rischi del contagio.
Come ha scritto Tito Boeri su questo giornale il 17 aprile, «gli stranieri irregolari vivono molto di più in promiscuità degli altri immigrati perché hanno minori fonti di reddito». E, mentre solo un italiano su cento convive con persone diverse dai suoi familiari, «un immigrato irregolare su tre convive con persone non legate da vincoli di parentela».
Ciò consente una rigorosa indagine di eziologia sociale sulle relazioni tra virus e ambiente e fa intendere come la regolarizzazione risponda in primo luogo a un’esigenza di salute pubblica. Da qui l’urgenza di un provvedimento di regolarizzazione per gli stranieri privi di documenti già presenti in Italia, legato all’offerta di un contratto da parte di un datore di lavoro e il rilascio di un permesso di soggiorno rinnovabile, nel settore agricolo e in quello dell’attività domestica. Questa ipotesi ha già incontrato un consenso molto ampio da parte delle rappresentanze dei datori di lavoro e dei sindacati, di componenti del governo e dell’opposizione e dell’intero associazionismo laico e religioso. Non è un programma improvvisato: nasce nel 2017 grazie alla campagna Ero straniero, che portò alla raccolta di 90 mila firme a sostegno del progetto di legge di iniziativa popolare ora all’esame della Camera. E questo suggerisce un’ultima associazione mentale.
La parola emergenza, che meglio di qualunque altra qualifica il presente, è legata per tanti fili alla parola emersione, la cui etimologia richiama il termine mare. L’emergenza segnala una precarietà tragica, che investe la situazione materiale e la condizione morale: uno stato di instabilità sociale e psichica da cui si può uscire solo attraverso un processo di emersione. Ecco, l’emersione dalla clandestinità della condizione civile e lavorativa di tanti irregolari può essere un contributo importante affinché tutti noi, italiani e stranieri, possiamo guardare oltre l’emergenza
fonte: LA REPUBBLICA – 29 APRILE 2020